Le automobili sull’etichetta sono un “incentivo” alla guida in stato di ebbrezza e quindi proibite dalla legge? No problem: basta farle sfrecciare via. Storie di ordinaria ottusità scandinava e di innata arte italica (anzi, chiantigiana) di arrangiarsi. Brillantemente.

Quel vino mi piaceva.
Era una verticale di cinque annate (2006-2010) di Vigneto Belvedere, il Chianti Classico Riserva del Querceto di Castellina (qui), l’azienda agricola di Jacopo Di Battista. Interessante perchè, nell’arco di un lustro, sia il rosso che il vigneto avevano conosciuto fasi diverse, scelte diverse, mani diverse e percentuali diverse di uvaggio. Da un 85% di Sangiovese e 15% di Merlot si era passati, nel 2008, rispettivamente a 90% e 10%. E, nel medesimo anno, dal convenzionale al biologico e dalla barrique al tonneau. Curiosamente, tra i campioni il mio preferito era proprio il 2008, l’anno del triplo salto: un gran bel rubino pieno ma non invadente, naso generoso e immediato, ricco di screziature e con accenni sovramaturi, bocca ampia, un po’ nervosa, di fondo appena amarognola ma piacevole, lunga, godibile.
Eppure devo ammettere che, da quando, illustrando l’annata precedente, il titolare aveva raccontato l’aneddoto, per il resto dell’assaggio la mia mente non è rimasta concentratissima sui vini, bensì sull’altra storia. Quella dell’etichetta.
Troppo divertente e curiosa.
Si parlava di mercati, di tendenze commerciali, di export.
A un certo punto il discorso cade sui paesi scandinavi e su una disavventura capitata all’azienda con il rigido ente statale che in Svezia regolamenta l’importazione dei vini.
Bisogna premettere che il Vigneto Belvedere ha una bellissima etichetta stile fumetto anni ’30 (qui), “rubata” (lo ammette il proprietario stesso) da un vecchio pacchetto di sigarette, con tante auto d’epoca dai colori vivaci che sfrecciano sullo sfondo di un cielo azzurro e di una coppia di cipressi molto toscani.
Ecco, qui nasce il problema: non nel cielo e nei cipressi, ovviamente, ma nelle auto.
Il nostro piazza un bell’ordinativo nella patria della socialdemocrazia, del Vasa e del sesso libero e che si sente dire? “Spiacenti, ma le macchine in etichetta non sono ammesse, potrebbero suonare come un incentivo al consumo prima di guidare e, quindi, alla guida in stato di ebbrezza“. Dunque? “Dunque nulla: o cambia etichetta o qui il suo vino non lo vende“.
Ora, io capisco il problema dell’alcolismo e so che in quei paesi è una piaga seria, affrontata con piglio altrettanto serio e severo. Ma immaginate la faccia del Di Battista: per la riserva ha scelto un’immagine artistica, molto caratteristica e riconoscibile, che sembra presa dalle tavole dell’Uomo Mascherato o di Flash Gordon e lui si sente dire che non può usarla, quindi niente import nel regno di Re Gustavo.
Intendiamoci, non si tratta certamente nè del primo nè dell’unico caso di un produttore rimasto impigliato in qualche norma singolare o nell’uncino della variegata burocrazia vinicola sparsa per il mondo. E scappatoie non ce n’erano: bisognava cambiare l’etichetta del vino o rinunciare a esportarlo in quel paese.
Ma cambiare un’etichetta non è facile nè tecnicamente, nè graficamente, nè commercialmente. Si rischia che il prodotto perda la sua immagine, che il consumatore rimanga confuso, che la fretta e i costi dettino scelte sbagliate.
Ed è qui che, a mio parere, è venuto il colpo di genio.
Le macchine in primo piano non vanno bene? Ok. E io le metto in moto e le faccio sfrecciare via, lasciando al loro posto solo una nuvoletta di fumo, proprio come nei fumetti.
Detto fatto: Jacopo chiama il grafico e fa disegnare ad hoc l’etichetta che vedete in testa a questo articolo. Dove, puff!, le sagome delle macchine con i parafango tondeggianti sono sparite e al loro posto ci sono solo tre nubi un po’ beffarde di polvere e gas di scarico. Bye bye monopolio svedese.
Problema risolto, alla fine: apparenze salve, burocrate soddisfatto, ordinativo nel cassetto.
Arte italica di arrangiarsi batte formalismo svedese, 1 – 0.