Le norme in aula al Senato sulla diffamazione sono davvero un attentato alla libertà di stampa? Perchè però difendiamo l’indifendibile, come il dolo, e non si vuole distinguere tra chiacchiere e informazione? Da un colloquio privato tra me e Stefano Fabbri (Ansa)

Da accanito ma disincantato difensore della categoria a cui appartengo, trovo insopportabile l’acritico piagnisteo a cui i giornalisti si abbandonano quando, spesso a bella posta, qualcuno agita lo spettro del “bavaglio all’informazione“.
E loro, pavlovianamente, senza leggere nè capire, ragliano e s’indignano. Abdicando alla primaria funzione, che sarebbe appunto quella di indagare, verificare, capire, riflettere e infine, casomai, riferire.
Prendiamo ad esempio il progetto di legge in corso di discussione in Parlamento sulla regolamentazione del reato di diffamazione compiuto attraverso i media.
Leggo pressochè ovunque uno strepitare, sento sollevarsi ondate di incontenibili indignazioni: “la mordacchia alla stampa!”. Stampa che si autopresume sempre libera, trasparente, intelligente, benfidata, consapevole, diligente e equilibrata (uè, come no, mi viene lì per lì da pensare, ma tengo momentaneamente la riflessione per me).
Poi mi imbatto, sul tema, nello scritto (qui) di un collega che stimo, di cui apprezzo saggezza ed equilibrio e che conosco da molti anni come Stefano Fabbri, responsabile della redazione toscana dell’Ansa.
Ne nasce un dibattito privato che poi, col suo consenso, ho deciso in sintesi di riportare qui.
Rimando ovviamente alla lettura del link per le premesse relative alle sanzioni in nuce e al dettaglio delle considerazioni di Stefano.
Il quale paventava la natura intimidatoria delle pene pecuniarie elevatissime, pur se sostitutive dell’inaccettabile soluzione carceraria.
Io gli chiedevo: che c’è di male a comminare “multe fino a 10.000 €, fino a 50.000 € se l`offesa consiste nell’attribuzione di un fatto falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità“? Noi giornalisti dobbiamo dire la verità. Se diciamo qualcosa sapendo che è falsa, poichè siamo anche consapevoli del peso che le nostre parole hanno, perchè non è giusto sanzionarci severamente? La maladefe, in un giornalista, mi pare una colpa imperdonabile.
E ancora, sull’obbligo delle rettifiche anche sul web, eccepivo: la ratio della norma, mi pare, è che la rapidità e la vastità di diffusione consentite dalla rete moltiplicano per miliardi di volte i danni che si potrebbero fare diffamando o calunniando qualcuno al bar o su un giornale cartaceo. Da qui la pretesa di rettifiche rapide e tassative, vista appunto anche l’interattività del sistema. Nulla però vieta a me, di contro, di resistere se sono certo della mia buona fede e delle verifiche che ho fatto. In altre parole: il nostro problema è la paura a priori di essere querelati (io appartengo alla generazione che riteneva le querele onorevoli cicatrici di guerra)? No, perchè alle querele si può anche rispondere, controquerelare e pure vincerle, se si ha ragione.
Ecco, concludevo, mi pare che su questi punti la categoria ancora faccia molta confusione e combatta una battaglia di retroguardia. Dove sbaglio?
Non sbagli, caro Stefano“, mi rispondeva lui. “Forse invece ho sbagliato io a dare sempre per scontata una cosa giusta che tu dici e cioè che batterci contro norme ingiuste non deve partire dal presupposto che siamo degli intoccabili anche quando sbagliamo. La sanzione in caso di dolo è giusta e men che meno possono sottrarvisi i giornalisti. E questo dobbiamo ripeterlo sempre, sia per noi sia perché almeno ci restituisce un po’ di perduta credibilità. Tuttavia la preoccupazione che ho tentato di esprimere e questa: e’ vero che non è piu’ prevista la pena detentiva, ma perché ripetutamente la Ue ha messo in guardia l’Italia a questo proposito e non certo perché siamo stati bravi noi a far passare questo principio. Ed è vero anche che l’istituto della rettifica avrà un peso maggiore. Ma resta il peso della sanzione pecuniaria alla quale si deve poi aggiungere l’eventuale risarcimento e che, nella condizioni in cui si trova l’editoria, rischia di far ammutolire molte voci critiche. Chi si prenderà tra gli editori e i direttori la responsabilità di rischiare, visto che l’eventuale sanzione è in capo anche a loro? E per il web, che come tu dici giustamente ha una possibilità clamorosamente maggiore di diffondere la diffamazione, saremo in grado di evitare che il bello della diretta 2.0 e cioè l’interattività dei commenti (dei quali il gestore sarà comunque responsabile) contengano espressioni diffamatorie? Il rischio è aumentato poi dal fatto che non vi sia una riga nel testo della proposta di legge sulle querele temerarie che potrebbero avere un effetto ancora più devastante della pena pecuniaria: se ricevi una querela magari non del tutto fondata te la sentiresti comunque di andare in giudizio rischiando di perdere? Insomma ce n’è da discutere. L’importante sarebbe farlo con interlocutori seri. Ma io, che pure non ho una cultura complottista, faccio fatica a non vedere nella mano del legislatore su questi temi la tentazione di limitare al di sotto della soglia minima la possibilità di dire la nostra“.
Sulle non trasparentissime mire del legislatore – gli rispondevo – sono d’accordo con te, ma è appunto sul piano politico che una categoria seria dovrebbe potersi e sapersi difendere, stando cioè su un piano di parità dialettica, senza attaccarsi agli isterismi vittimistici e retorici a cui stiamo assistendo da parte di chi (parlo dei colleghi), nel 70% dei casi, fa un uso consapevolmente politico o strumentale dell’informazione. Anche in relazione al web, forse basterebbe ricondurre le cose a quelle che sono: il web è un mezzo, quindi se usato giornalisticamente (registrazione, direttore, etc) è un giornale a tutti gli effetti, con relativi onori, oneri e norme, altrimenti è come una chiacchiera da bar. Che va sottoposta alle comuni norme sulla diffamazione che si applicano quando al circolo dico che il tale è cornuto o che la moglie è zoccola. Voglio dire: se il web comporta rischi professionali (cfr querele post commenti non moderati o calunniosi) occorre che esso sia trattato in termini professionali e quindi sottratto all’attuale abuso, che trasforma tutti in pretesi o finti giornalisti. Sull’entità della sanzioni pecuniarie, lo scopo intimidatorio è evidente, ma se ho ragione e sono in buona fede devo proprio avere paura? Mah, io di solito, se “sparo“, è perchè sono sicuro di quello che dico. Quanto alle querele temerarie, sono tali quelle di chi le intenta senza avere ragionevoli motivi per pensare di aver ragione, non il contrario. Sarebbe, cioè, una norma che ricade contro i querelanti-intimidatori e non contro i giornalisti: se mi fai una causa temeraria e perdi, ti commino una sanzione aggravata. Forse, come al solito, su certe cose i colleghi hanno le idee confuse o fingono di averle?
Fabbri: “Stefano, sulle querele temerarie è come dici tu. Ma per evitare che esistano ci vorrebbe una sanzione per chi le intenta. Altrimenti sei per mesi sotto schiaffo giudiziario e alla fine se il querelante perde ci rimette le sue spese legali e (ma non è detto) anche quelle dell’ingiustamente accusato. Quest’ultimo per i mesi del processo si autocensurerà o sarà censurato dal direttore. Comunque dovremmo cercare di parlarne bene perché anche per il web prevedo grandi difficoltà. Il testo prevede di equiparare i siti alle testate anche se non sono registrati. Tanto è vero che il testo mette la responsabilità in capo a chi ha registrato un dominio al registro di Pisa. Mi chiedo ad esempio che impatto potrà avere sui social. Non credo che basteranno i logaritmi di fb per per eliminare i “pericoli”. E l’unica alternativa sarà l’eliminazione di tutto ciò che possa “sembrare” pericoloso…“.
E io: condivido, ma si torna al punto di partenza. Primo: separare anche dal punto di vista normativo l’informazione professionale, con relative responsabilità e sanzioni, dal cazzeggio libero; secondo, fare un fondo gestito dall’Odg o da un’associazione volontaria che aiuti economicamente per le spese i giornalisti querelati; terzo, spiegare bene all’opinione pubblica che differenze ci sono tra blog e giornali, tra chiacchiere e informazione, etc. Se non lo facciamo noi, chi altro? Invece tutti sono buoni solo a strepitare, anche quelli in profonda malafede in quanto sicari di partiti, ideologie e gruppi di potere
Ecco, vorrei che il dibattito tra me e Stefano Fabbri si allargasse e diventasse pubblico.
Chi comincia?