Sul settimanale on line “Teatro Naturale” è di scena l’ennesima polemica che oppone stavolta il presidente di Agriturist, Vittoria Brancaccio, e il delegato Fai di Verbano-Cusio-Ossola, Daniele Bordoni, su un tema ormai logoro: qual è, se esiste, il “vero” agriturismo? Peccato che si parli di qualcosa che, come tale, non ha più senso e che si inserisce ormai a pieno titolo come tessera della grande industria turistica (senza che in ciò vi sia nulla di male!).

Ha perfettamente ragione la mia amica Vittoria Brancaccio, presidente nazionale dell’Agriturist, a rispondere alle affermazioni di Daniele Bordoni sul penultimo numero di “Teatro Naturale” (vedi link) a proposito di agriturismi “veri” e “falsi”. Ovvio che il massimo rappresentante della categoria difenda l’offerta dei propri associati. Molte ragioni, però, le aveva anche Bordoni quando affermava che il “vero” agriturismo è, o nell’evolversi della dinamica commerciale è diventato, ciò che meglio si adatta alle aspettative, spesso fantasiose, del turista, con buona pace della presunta “originalità” di un arcano contadino oggi assai poco credibile.
Ne deriva un quesito: cosa, oggi, è “agri”?
Sostenere che l’ospitalità agrituristica “aiuti” le aziende agricole a sopravvivere fa un po’ sorridere. Formalità a parte, tutti sanno che, quando l’attività funziona, il gettito che deriva dal ricettivo è pari se non ben superiore a quello che viene dai campi. E meno male che è così, sennò addio ai campi medesimi. Ma, per funzionare, l’attività deve appunto incontrare il favore della clientela. La quale, da oltre un decennio uscita dalla nicchia degli amatori “consapevoli” e divenuta (anche perchè l’esplodere dell’offerta non avrebbe altrimenti consentito al mercato di “tenere”) smaccatamente generalista, è una clientela di bocca abbastanza buona, che si accontenta spesso di una spolverata di agricoltura tutt’intorno, di un pratino all’inglese, un alloggio di standard paralberghiero e dei relativi comfort (purchè col mattone facciavista e “immerso nel verde”). Insomma, all’ospite medio, tranne rari casi, della parte davvero “agricola” del contesto gliene frega il giusto: gli basta l’apparenza, meglio se esente da insetti e da odori “naturali”.
Ne consegue che l’agricoltura, pur faticosamente e benemeritamente praticata da molte aziende agrituristiche in parallelo all’attività ricettiva, si trasforma in un’appendice, in un orpello più o meno superfluo, se non nelle apparenze e nei (giusti) requisiti formali che deve offrire.
Se dunque da un lato Vittoria Brancaccio fa bene a difendere le aziende dall’accusa di essere “finte” (pur non mancando nel settore copiosissime mele marce), fa altrettanto bene Bordoni a metterne in evidenza la frequente “scarsa autenticità”, intendendo per tale non la sostanza agricola, bensì l’inseguimento dell’apparenza.
Il fatto paradossale è che il dibattito è ormai fine a se stesso perchè, nel tempo, sotto il profilo commerciale il prodotto agrituristico ha abbandonato da mo’ la propria nicchia e si è inserito a pieno titolo – obtorto collo o meno, consapevolmente o meno – come componente integrata del grande sistema turistico. Un sistema industriale che, per sua natura, “vende” sensazioni, illusioni, aspettative, suggestioni e assai poca sostanza.
Si dovrebbe dunque chiedersi se ad essere “vere” o “finte” sono le suggestioni offerte oggi dall’agriturismo alla propria clientela.
Ma è una questione su cui vale davvero la pena di investigare?
A parere di chi scrive, no.