Pure i giornalisti devono intuire quando è il momento di farsi da parte, mutando l’oggetto e il modo del loro lavoro. Per non ritrovarsi tra i pensionati di fatto, senza saperlo.

 

Con il suo incedere, la vita ti dimostra che, in modo impercettibile ma inesorabile, le cose mutano. Continuamente.

E che, nel contesto, questo trasforma la tua originaria centralità in progressiva marginalità. È fatale.

Non si tratta di giudicare se ciò sia un bene o un male, o se il mutamento a cui assisti sia positivo o negativo: la cosa essenziale è essere consapevoli che accade e non farsi sorprendere da vicende che, come quasi sempre, l’esistenza aveva ampiamente preannunciato, solo che tu magari avevi sottovalutato le avvisaglie.

Nel lavoro, poi, avere sempre ben presente tale dinamica è molto utile. Anzi, indispensabile.

Aiuta ad esempio a capire quando è giunto il momento di ricollocarsi, di ripensarsi. Un po’ come le modelle che, con l’avanzare dell’età, diventano attrici e mettono così a reddito, in termini di forme e di fascino, quegli anni e quei chili che in passerella stavano diventando un handicap.

Nella professione giornalistica non è molto diverso.

Non si tratta pertanto di inseguire o reclamare gerarchie da anzianità piuttosto ridicole e pressochè sempre smentite dai fatti, ma di intuire – possibilmente per tempo – che per ineludibili ragioni tanto anagrafiche quanto contingenti sei diventato inadeguato al settore o alle testate o alle tipologie di impegno alle quali per anni ti sei dedicato, magari con soddisfazione e pure con successo. Che bisogna resettarsi, insomma.

Passare dalla teoria alla pratica è però assai più difficile. Arduo rinunciare a posizioni acquisite (ma ormai sempre più barcollanti), schemi mentali assimilati, reti di rapporti consolidati (ma per le medesime ragioni, pur essi mutevoli), automatismi psicologici.

Il prezzo del mancato adeguamento potrebbe infatti essere molto caro. Tipo ritrovarsi in contumacia (cioè non nella testa propria, ma in quella altrui, che è ciò che conta) nella schiera dei colleghi pensionati. Pensionati di fatto, intendo, e non di diritto, perchè l’esperienza quotidiana insegna che ci sono giornalisti a riposo attivissimi e rispettati ed altri ancora formalmente in pista, ma guardati con compassione e in palese declino. O, peggio, ritenuti più inadeguati di un principiante. Il quale, almeno, ha dalla sua almeno il fatto che può ancora sperare di imparare ciò che voi invece non siete più in grado di apprendere.

Tutto questo, si capisce, non significa affatto che i più vecchi non debbano aggiornarsi, ovvero impratichirsi con nuove tecniche, familiarizzare con i nuovi linguaggi, osservare i mutamenti della società e prenderne atto. Al contrario: è obbligatorio. Ma oltre una certa soglia, non si può. O non si riesce. Quindi meglio adeguarsi. E mettersi nella posizione di chi, le cose, se non può o non sa raccontarle come sono oggi, ha però il raro privilegio di poterle raccontare com’erano ieri. Riacquisendo in tal modo, nel sistema, la centralità perduta visto che, se al domani tutti possono assistere, nel passato chi c’era, c’era e che, chi non c’era, se lo può solo immaginare.

I vecchi la chiamavano, forse banalmente, esperienza.

I colleghi di oggi che ne pensano?