Agricoltori e commercianti non si sono mai amati. I primi considerano i secondi fondamentalmente “ladri”, i secondi considerano i primi essenzialmente “contadini”, cioè sempliciotti. Mondi diversi, spesso opposti. Veloci e scaltri gli uni, lenti e fatalisti gli altri. Eppure, come si dice, a volte la fame toglie il lupo dal bosco. Ovvero, la necessità spinge a riflessioni e ad alleanze in precedenza impensabili.
Forse è presto per delineare scenari di solidarietà vera e propria, ma quanto ha detto ieri in conferenza stampa il segretario generale della Confesercenti senese, Walter Fucecchi, analizzando lo stato di profonda crisi in cui versano il commercio e il turismo di una città che rappresenta comunque uno dei fari regionali dell’industria turistica, è un concetto che fa riflettere.
“Mi dicono – ha esordito il dirigente – che produrre il grano non è più conveniente e che a causa di questo le nostre campagne rischiano l’abbandono. Occorre prò capire che esse rappresentano, con il loro paesaggio e i loro prodotti, anche un tassello fondamentale della nostra offerta e di quell’immaginario collettivo che è alla base delle motivazioni di visita dei viaggiatori in terra di Siena. E allora mi chiedo: perchè non aiutare gli agricoltori a continuare a fare gli agricoltori, invece di spingerli a cambiare mestiere e a rubarci il lavoro trasformandosi in operatori del ricettivo?”.
Potrebbe sembrare una banale frecciata (quale indubbiamente è) contro il fenomeno dell’agriturismo, sulla scia delle polemiche anche recentissime che hanno opposto le due categorie sul nodo della cosiddetta “liberalizzazione” dell’ospitalità rurale concesso dalla regione e che, secondo i commercianti, costituisce una sorta di liceità di concorrenza sleale da parte degli agricoltori verso albergatori e ristoratori (la questione è tecnicamente complessa e non vale la pena di addentrarcisi in questa sede). Ma non è solo questo. E’ anche il segno di un’illuminazione, di una resipiscenza, di una cortina che si alza. Insomma del fatto che, finalmente, qualcuno ha capito che il problema del de profundis agricolo – senese, toscano, nazionale – non è un solo agricolo, ma trasversale e collettivo: gli agricoltori toscani sono i “giardinieri” di quel paesaggio, un po’ concreto e un po’ onirico, sul quale e nel quale un’intera industria si appoggia e passeggia. E’ quella del turismo, appunto, ma anche del cinema, del marketing, dell’agroalimentare. Se chiudono bottega loro, gli agricoltori (o se passano a colture e a sistemi di coltivazione esteticamente meno gradevoli), quel “fondale”, che fa da scenario apparentemente immutabile della cosiddetta toscanità (avete presente i nuovi spot della Regione, con Marta Cecchetto che vampeggia su uno sfondo di campagna cartolinesca?), scompare. Con conseguenze spiacevoli per tutta la filiera che, proprio sull’idea di una Toscana pettinata di olivi, vigneti e messi biondeggianti al vento, ci campa almeno da cinquant’anni.
L’intuizione di Fucecchi arriva tardi (quando cioè i buoi sono già scappati dalla stalle, per restare nella metafora rurale), ma arriva. Ed è un segnale. Il ragionamento, del resto, anche utilitaristicamente non fa una piega: se gli agricoltori riescono a sopravvivere dignitosamente facendo il loro mestiere, cioè coltivare la terra, non avranno bisogno di andarsi a cercare altri redditi andando ad invadere il campo (appunto) del commercio e del turismo.
Ora che il ripensamento è stato innescato e che, da parte sua, anche un mondo agricolo in profonda crisi ha cominciato (pur tardivamente anch’esso) a sommuoversi, dando vita ai cosiddetti comitati spontanei per la sopravvivenza del settore, non sarebbe ora che da un lato la politica abbandonasse i suoi equilibrismi, prendendo atto di un problema ormai di tutti, e che dall’altro le organizzazioni dei rispettivi settori provassero a trovare vie d’uscita o strategie comuni?