Come definire quanto accaduto lo scorso 17 aprile in commissione contratto dell’Fnsi, reso pubblico a sorpresa dal presidente dell’Ordine? Io lo chiamerei solo la chiusura del cerchio. Oppure la fine triste della commedia.

Era inevitabile che accadesse o era indispensabile che succedesse?
Tutte e due le cose, direi.
Solo che è avvenuto troppo tardi. Invece dell’esplosione rigeneratrice, che disintegra e azzera, c’è stata l’implosione funebre, che risucchia e seppellisce.
E al risveglio, belli sigillati nel sepolcro dove da lustri ci hanno più o meno occultamente relegato, non abbiamo trovato nessun angelo pasquale a liberarci dalla lastra tombale.
Ora, ci troviamo professionalmente sottoterra.
Morti e sepolti eravamo, morti e sepolti resteremo, sia chiaro.
Ma siccome forse appena l’1% della cosiddetta popolazione giornalistica – un buffo mondo di presunti cinici e onniscienti, che però sulle cose proprie cadono facilmente dal pero – aveva finora annusato il puzzo di vero cadavere che aleggiava attorno alla categoria, la speranza è che almeno adesso un po’ di fette di prosciutto comincino a cadere dagli occhioni delle troppe anime candide convinte del futuro comunque luminoso e progressivo di un lavoro giunto invece al capolinea.
Non mi riferisco solo al desolante contenuto della riunione della commissione contratto Fnsi e al dibattito che al suo interno si è sviluppato (per questo basta a avanza la cadenzata cronaca che ne ha fatto, in diretta, il presidente dell’Ordine Enzo Iacopino: la trovate qui), ma al quadro generale che esso ha messo in luce: per come è regolamentato, amministrato, organizzato, rappresentato, composto e concepito, il giornalismo italiano è al punto di non ritorno. Fine.
Sì, lo sapevamo.
Ma una cosa è saperlo per sentito dire, facendoci la tara. Un’altra è toccarlo con mano, verificandolo dalle parole stesse di quelli che lo gestiscono e lo rappresentano.
Di colpo, tutto diventa obsoleto. Equo compenso, contratto, riforma dell’ordine e l’intero ambaradan di cui si è discusso negli ultimi diciotto mesi passa in un attimo al rango di argomento marginale. Come una pur dolorosa slogatura al cospetto di un male incurabile.
Lo scrivo mentre sotto gli occhi mi scorre il pensosissimo, pasionarissimo, modernissimo, futuribilissimo, politicamente correttissimo programma del Festival del Giornalismo di Perugia.
Mi scappa da ridere al pensiero di cosa diranno, mentre aleggia questa cappa plumbea.
Appena mi passa, ricomincio a cercarmi un lavoro serio.
Altro che Epifania, qui è la Pasqua che tutte le celie se l’è portate via.