Da sabato 13 a lunedì 15, alla Leopolda, è di scena la quinta edizione della rassegna dell’enogastronomia e “dintorni”: assaggi, acquisti, dibattiti e prodotti dedicati al gusto. Il tutto in un’orgia di cento eventi collaterali interni ed esterni (i cosiddetti “fuoriditaste”) alla fiera. Troppi? Può darsi. Ma l’importante è che tutto non si riduca ad una grande ed inutile abbuffata. O a una prova generale di appiattimento per lo sbarco sui “famosi” mercati esteri di merce che nemmeno in Italia è facile trovare.

Lo ammetto: ho partecipato solo una volta, da semplice visitatore e frettolosamente, a una delle precedenti edizioni di “Taste – in viaggio con le diversità del gusto”, la kermesse enogastronomica che la proteiforme Pitti Immagine srl (collaudata task force della moda e non solo) organizza a Firenze dal 13 al 15 marzo prossimi.
La location, va detto subito, è vincente: l’ex stazione Leopolda, vastissimo e architettonicamente suggestivo ambiente collocato alle porte del centro storico e da tempo “collaudato” durante le anteprime del Chianti Classico come uno dei migliori “contenitori” in Italia per quel tipo di manifestazioni.
Da sempre, penso volutamente, Taste si dà un’immagine tendenzialmente glamour, scintillante, sofisticata, forse (anzi, sicuramente) per distinguersi da altre similari manifestazioni sulle quali alla fine finiscono per predominare il profumo di mortadella, l’assalto agli “assaggini” e una casereccia, ma poco invitante atmosfera da sagra. Alle oltre duecento aziende espositrici (“specializzate e di nicchia”, sottolineano i comunicati) e ai loro circa 30mila prodotti si affiancano infatti oggetti di food & kitchen design (tradotto: suppellettili da tavola e da cucina, come le divertenti alzatine di acrilico disegnate da Marco Luca Giusti ispirandosi alla cupola del Brunelleschi e usabili anche, rovesciate, come centrotavola con portafiori incorporato), un negozio dove acquistare i prodotti esposti, vari talk show su argomenti gastroculinari (i cosiddetti taste ring, tra i quali spicca un tendenzioso dibattito su “L’origine è ciò che segna l’imprinting dei prodotti enogastronomici?” che promette scintille), gli immancabili taste tours di degustazione e un interessante (questo davvero!) cinema-taste, ovvero una selezione di filmati pubblicitari di diverse epoche dedicati al cibo. Chiudono il quadro una scenografia allestita con le murrine di Venini e gli ambienti arredati dalla celebre bottega fiorentina di interior design di Riccardo Barthel.
All’esterno, poi, il citato centinaio di eventi più o meno mangerecci sparsi per la città del cosiddetto fuoriditaste (il programma completo si trova su www.tastefirenze.it e su www.fuoriditaste.it).
Ce n’è per tutti, insomma. Tanto per tutti che il rischio, forse – e il pensiero va all’inutile manifestazione autunnale “Vignaioli & Vignerons”, andata dispersa e semideserta in mille improbabili rivoli regionali – è che siano troppi.
L’auspicio è naturalmente il contrario: cioè che per il pubblico fiorentino Taste rappresenti davvero l’opportunità di assaggiare, acquistare e con ciò sostenere le microproduzioni alimentari di eccellenza di cui l’Italia pullula.
Micro davvero se, come raccontato in conferenza stampa, un espositore dell’anno scorso dovette rinunciare a partecipare perchè, immobilizzato per una “caduta dal trattore” (sic), non aveva nessuno in azienda che potesse sostituirlo. Molto meno micro, però, se dovesse andare in porto l’idea (quest’anno fallita, a detta degli organizzatori, solo per mancanza di tempo) di una “esportazione” di Taste a Shangai e in altre sedi internazionali.
Francamente, e non da ora, da un lato ci pare infatti che l’idea di “nicchia” sia inconciliabile con i grandi numeri e i grandi mercati; dall’altro, l’espressione stessa racchiude il senso di una produzione talmente limitata da poter tranquillamente essere smerciata per intero e con successo su piazze comode, per canali capillari e comunque senza nessuna necessità di ulteriore promozione. La conclamata ipotesi cinese ci lascia dunque, non ce ne vogliano i promotori, per lo meno perplessi. A meno che, è ovvio, la proposta non tenda solo a creare un po’ di rumore e a far accendere sulla kermesse qualche riflettore in più. Oppure (e sarebbe peggio) che per tante altre specialità non si vogliano percorrere le strade purtroppo esiziali già percorse nel caso, ad esempio, del lardo di Colonnata o del fagiolo zolfino. I quali, dopo vent’anni di retorico tam tam, a giudicare dal volume di merce distribuito (o almeno attestato in etichetta) sui banconi degli hard discount, marciano più su ritmi produttivi da multinazionale che da piccolo artigianato.
Dio ci salvi, insomma, dall’utopia della “nicchia di massa” più o meno furbescamente predicata da tanti interessati santoni del cibo.
Ma su questo e tutto il resto, naturalmente, potremo essere più esaurienti a fiera conclusa.
A rileggerci…