Non c’è bisogno di occuparsi di guerra. Col caso del fotoreporter tornerà nell’oblio anche la questione di fondo: dare alla libera professione un inquadramento organico su compensi, riconoscimento sociale, previdenza, fisco, formazione, assicurazioni.
Scrive su FB il collega Cristiano Tinazzi: “E’ morto il fotografo Rocchelli. Non lo conoscevo. Contro un colpo di mortaio c’è poco da fare, ma spero che verrà ricostruita esattamente la dinamica dei fatti anche perché chi verrà dopo di noi a documentare dovrà imparare anche sugli errori nostri per evitare quanto più possibile di rischiare la vita. Dobbiamo incominciare a capire che non si va in zone di guerra senza un giubbotto antiproiettile, senza un elmetto, senza un cazzo di kit medico, senza sapere come fare e cosa fare in caso di ferimento e come provare a salvare un collega ferito. Imparare che si deve essere sempre riconoscibili, riconoscibili i mezzi (tranne in particolari casi in cui è meglio non esserlo) al fine di evitare anche il più piccolo fraintendimento. Non si va senza assicurazione sulla vita“.
Ha ragione.
Ma aggiungo: fatte le debite differenze, questo vale per tutte le situazioni e per tutti i settori del nostro mestiere.
Ovviamente ci sono circostanze in cui i danni prodotti dall’inesperienza, sfortuna a parte, sono maggiori. Contro la pura fatalità non si può fare nulla, è vero, ma già saperlo ed esserne consapevoli aiuta a prevenire, sia materialmente che psicologicamente. Non parlo di Rocchelli, bensì in generale.
Il punto però, come dico spesso (ad esempio qui), è più ampio e sempre il medesimo: consiste nella necessità improrogabile di dare al giornalista freelance (che, lo ricordo, per avere questo titolo dovrebbe, in teoria, aver dimostrato di possedere la professionalità minima indispensabile) quella forma di legittimazione a 360° consistente nel riconoscimento della funzione sociale svolta, in un sistema di retribuzione-previdenza-tutele adeguate alle funzioni e ai rischi assunti, una seria e cadenzata verifica dell’effettiva capacità professionale posseduta, l’obbligo di frequentazione di corsi per gli specialisti di teatri/materie specifici (es. guerra, mafia, finanza, sanità ma anche, perchè no, motori o moda o sport: chi è impreparato i danni, a sè e al prossimo, li fa ovunque) adeguati alla naturale evoluzione delle diverse materie.
In sintesi, consiste nella necessità di dare alla figura del freelance (che NON è un precario, NON è un dilettante, NON è un dopolavorista o un secondolavorista) una fisionomia certa e stabile, riconosciuta sotto tutti i profili, cessando di usare il termine genericamente per indicare attività o mestieri che altrimenti non si sa come inquadrare o definire. E avendo anche il coraggio di allontanare dalla (libera) professione chi non ne è all’altezza (anche perchè altrimenti, alla fine, la professione allontana lui)
Spero che il caso Rocchelli riaccenda su questi temi l’attenzione dei colleghi, dell’Odg e dell’opinione pubblica (il sindacato invece ha già, da sempre, altro a cui pensare).
Perchè oggi in ogni freelance c’è un potenziale Andy Rocchelli che rischia in ogni momento di fare, fisicamente o professionalmente, la stessa fine.