Nell’ultimo quindicennio la professione ha conosciuto, in ogni senso, un tracollo (peraltro ampiamente annunciato). Ma i nodi rimasti da sciogliere sono così grossi che potrebbero costarci la chioma, come è già successo alle giovani generazioni.
A livello individuale, i nodi di un quindicennio di libera professione giornalistica in caduta piombante da un lato e di giornalismo “contrattualizzato” sempre più indebolito da assunzioni col contagocce, asciugamento delle redazioni, prepensionamenti strategici e chiusure a raffica dall’altro, sono venuti al pettine un po’ per volta.
Ma a livello collettivo i nodi grossi stanno venendo al pettine adesso. E potrebbero costare lo scalpo all’intera categoria.
Non mi riferisco solo alla catastrofe dell’Inpgi, che lascio al pietoso destino della lotta tra fazioni sindacali, ma al fatto che, in questo ormai lungo arco di tempo, si è allevata un’intera generazione di colleghi priva di autostima, di consapevolezza e di prospettive. E la deriva, visto lo stato delle cose, non può che continuare. Peggiorando.
Chiariamoci: le nuove generazioni non hanno alcuna responsabilità in tutto questo, di cui anzi sono vittime.
L’unico addebito che può essere loro imputato è forse aver dato poco ascolto alle allarmate raccomandazioni dei più anziani, che da mo’ avvertivano i nuovi arrivati della totale mancanza di orizzonti e dell’esaurimento della cosiddetta trippa per gatti, ma tant’è.
A parte questo, è evidente che poco si può rimproverare ai trenta-quarantenni di oggi, nati e vissuti professionalmente in un contesto che non ha consentito loro di avere nè le certezze, nè l’indipendenza (economica e non ), nè la “scuola” indispensabili per maturare la sicurezza di sè necessaria per fare questo mestiere con coscienza e continuità.
Con rare eccezioni, moltissimi giovani colleghi sono cresciuti infatti in una temperie consolidata, in cui la necessità di “arrotondare”, di avere un secondo (o meglio dire primo, cioè vero) lavoro era una scelta obbligata, se si voleva campare. In cui fidelizzare le proprie collaborazioni era un rischio costantemente enfatizzato da una concorrenza al ribasso sui compensi, anzichè sulla bravura, l’intuito, la professionalità. In cui quella componente tanto fondamentale nel giornalismo da costituirne un caposaldo, ovvero la componente fiduciaria e soggettiva, è stata vanificata prima dall’operaizzazione del lavoro giornalistico e poi dalla sua sostanziale liberalizzazione, che si è trasformata in dilettantizzazione.
Ho sentimenti di grande solidarietà verso questa generazione di giornalisti che vedo costretta ad arrangiarsi e a dare per scontato che i compromessi facciano parte del gioco, che si possa e perfino si debba fare da arbitri e da giocatori al tempo stesso e che il prezzo da pagare per essere indipendenti sia vivere di altri redditi. Si è tentato di abbindolarli con la panzana dell’autoimprenditorialità, senza spiegare loro che essa è ben diversa dal freelancing e comporta stare con un piede e mezzo fuori dalla professione.
Non c’è bisogno di bazzicare i social per respirare quest’aria avvelenata, in cui i gas tossici della propaganda e del marketing si mescolano con un’informazione quasi mai separata da una “comunicazione” (sulla quale, non a caso, fioccano i corsi di laurea) svolta spesso da chi non ha nemmeno i titioli per farla. Basta guardare le conferenze stampa trasformate in monologhi, la mancanza di senso critico, le domande abortite prima di nascere e, nel caso, accolte quasi sempre come uno sgarro compiuto verso il relatore.
Se tutto ciò era fino a qualche tempo fa una piaga, sebbene sempre più vasta, in un corpo sano, oggi il malanno è quasi generalizzato, cronico, esteso a tutto l’organismo. E quindi percepito da tutti – addetti ai lavori e opinione pubblica – come normalità.
Roba per la quale noi giornalisti non finiremo mai di metterci le mani nei capelli, finchè ce ne resteranno.