Chi si ricorda la vecchia pubblicità dei rapinatori asserragliati in banca e la polizia che ingaggia il superpoliziotto Usa per stanarli? Ecco: “stimolato” da un post di Antonello Antonelli sull’elenco dei pubblicisti arriva il collega Wolfgang Achtner a dirci qui cosa bisogna fare. Ma con un spocchia e una superficialità fastidiose. Ecco la mia risposta.
Caro Achtner,
ho letto le tue recenti considerazioni sul giornalismo italiano e i suoi problemi.
Con tutto il rispetto per il tuo curriculum e la tua autorevolezza professionale, che non discuto, non credo tu possa impartire lezioni su temi che evidentemente non conosci bene o che non cogli nella loro complessità.
E in tutta franchezza non credo neppure nella superiorità del modello anglosassone al quale così platealmente ti rifai e che, con pari supponenza, dai per scontato essere in assoluto quello di riferimento, proponendo continui e un po’ spocchiosi confronti.
Non sto qui ad elencare i copiosi esempi, peraltro noti, coi quali potrei dimostrare i punti deboli di quel modello, anche perché in questa sede il punto non è stabilire quale dei due sia il migliore, ma capire come, dove e perché il sistema del giornalismo italiano ha bisogno di una riforma.
E questa riforma, credimi, oggi necessita di tutto fuorchè dell’abolizione dell’Ordine.
Ti chiarisco che non ho interessi personali o poltrone da difendere: sono un critico feroce della categoria, dell’Ordine e del sindacato. Ma non per questo penso che, troppo semplicisticamente, si debba buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Dispiace poi che molti dei tuoi argomenti siano intrisi di luoghi comuni risaputi e anche snob. Come l’affermazione, tra il ridicolo e l’offensivo, che tutti i giornalisti italiani sarebbero figli di giornalisti e schiavi della politica. E che il sistema sarebbe “chiuso”. Forse lo è quello delle tue frequentazioni, molto alte e istituzionali, ma se (come predichi in teoria, secondo appunto il “modello anglosassone”) mettessi davvero il naso nelle centinaia di redazioni, grandi e piccole, sparse per l’Italia, di renderesti conto di una realtà ben diversa.
Piena di problemi, senza dubbio. Problemi di identità, di professionalità a volte, ma non certo di chiusura.
Ti pare chiuso un organismo che annovera 110.000 membri e al quale si accede – caso più unico che raro al mondo, credo – con qualsiasi titolo di studio e senza superare alcuna prova, test, selezione? E non ti pare che questa bizzarra quanto occulta forma di liberismo professionale (c’è un ordine, ma può entrarci chiunque, senza reali filtri) somigli parecchio, nei fatti, alla realtà in cui operano i presunti “maestri” americani o inglesi, dove “giornalista lo è chi lo fa, nel senso che si diventa un giornalista nel momento in cui qualcuno accetta di pagarti per un articolo, servizio radio o quello che è”? L’unica differenza è che qui quasi nessuno ti paga e quindi, secondo la tua logica, dovrebbero essere in pochissimi a diventare giornalisti.
La recente sentenza della giustizia Usa sul caso della blogger Crystal Cox (qui) dovrebbe inoltre farti riflettere sul fatto che anche da voi, nella patria del presunto “libero giornalismo”, sta cominciando per fortuna a far breccia un concetto che a noi “primitivi” italiani è ben chiaro da tempo: ogni attività ha bisogno di una regolamentazione e ciò non al fine di renderla meno libera, ma viceversa perché la vera libertà si ha solo se vi sono regole certe all’interno delle quali operare. Altrimenti la libertà diventa un’opaca anarchia.
Quanto alla reclamata indipendenza dei giornalisti angloamericani dal potere, beh, ci sorrido sopra e vado avanti.
Non sto a contestare qui neppure altre tue accuse gratuite, tipo quella secondo cui in Italia i giornalisti a volte copiano le corrispondenze dei colleghi stranieri, come se a parti invertite ciò non accadesse o come se i colleghi stranieri, spesso proprio americani, non si coprissero di ridicolo spacciando per epocali scoperte giornalistiche le più ovvie banalità sul nostro e altri paesi, magari riportate per sentito dire.
Torniamo al punto, invece.
Che l’Italia abbia sue peculiarità culturali, a volte incomprensibili per gli stranieri, e che queste si riverberino anche nel giornalismo, non si dubita. Normale quindi che, come scrivi, da americano le possa trovare assurde.
Dubito invece del fatto che esse siano automatico sintomo di inferiorità o di inadeguatezza. Al massimo sono sintomo di diversità. E non credo che esista da parte nostra il dovere aprioristico, sebbene da te sottolineato addirittura in maiuscolo, di adeguarsi alle logiche altrui, come le tue argomentazioni vorrebbero invece far intendere.
Se avessi indagato un po’ meglio su come funziona il nostro sistema, invece di rifarti a pregiudizi risalenti oltretutto a 15 anni fa, preistoria rispetto ad oggi, ti saresti reso conto che da noi il “merito” viene poco riconosciuto non perché ci siano troppe regole e cavilli, ma perché ce ne sono troppo pochi. Perché la liberalizzazione di fatto (“Todos caballeros”, come in Usa) che imperversa da un decennio nella professione ha creato un “giornalistificio” che sforna ogni giorno nuovi giornalisti, tutti in teorica concorrenza tra loro e quindi “liberi”, ma nella sostanza impossibilitati a lavorare degnamente (ovvero pagati) per mancanza fisica di spazio e di margini di guadagno. Costoro “vanno per strada” esattamente come predichi tu e lì imparano il mestiere. Poi, però, restano al palo. Altro che lacci e lacciuoli dell’Ordine. Ecco gli effetti del “libero mercato” e della “concorrenza” sulla professione. Parli di assunzioni nepotistiche, ma forse non ti sei accorto che da anni non si assume quasi più nessuno, perché, in mancanza di regole, è più conveniente appaltare i lavori fuori dalle redazioni, dove non a caso si produce il 70% del pubblicato.
Insomma il nocciolo della questione è esattamente l’opposto di quello che dici. Ma tu vieni a darci lezioncine dal “mondo vero”. Per favore…
L’Ordine (se poi non ti piace la parola perché ti rievoca – che noia, però! – i soliti fantasmini fascisti a orologeria, possiamo dargli anche un altro nome, ma la sostanza non cambia) serve a fungere da cornice alla professione, a dare regole certe e a controllare il rispetto delle stesse, stabilendo i criteri per l’ottenimento della qualifica professionale. Si possono mutare i modi, ma non il principio. Il sistema professionisti/pubblicisti, strambo quanto vuoi, ha funzionato piuttosto bene finchè non è degenerato, o meglio finchè non si è omesso per troppo tempo di adattarlo alla mutata realtà della professione.
Se ciò è accaduto, occorre rimettere l’istituto nelle condizioni di funzionare, non abolirlo per il semplice gusto di “liberalizzare”, scimmiottando altri paesi.
Questa è la reale necessità del giornalismo italiano. Che come tutti ha le sue pecche e i suoi limiti, ma per essere migliore non ha certo bisogno di omologarsi a modelli altrui.
Criticare va bene, per carità. Spesso un occhio estraneo sa cogliere meglio certe storture. Ma forse ci vorrebbe anche più rispetto e un briciolo di maggiore approfondimento. Ad esempio comprendere che, ad oggi, il governo non ha affatto deliberato alcuna abolizione dell’elenco dei pubblicisti e che si tratta per ora solo di un’ipotesi tecnica nell’ambito di più ampi e articolati provvedimenti legislativi.
Come vedi, a volte la realtà è più complessa di come sembra a chi è abituato a un modo “semplice” di concepire le cose.
A tua disposizione per qualsiasi chiarimento.
Saluti, S.T.