Mezzo secolo fa il Nobile otteneva la denominazione di origine controllata. Una ricorrenza festeggiata con sobria allegria in una memorabile verticale 1966-1999, una dissertazione sul territorio, un talk show, inaugurazione dell’enoliteca consortile e appendici musicali wineoriented.
Nel 1966, assieme ad altre nove, nasceva la doc del Vino Nobile di Montepulciano, che fu quindi fra le prime dieci in Italia a fregiarsi dell’allora massimo riconoscimento di qualità. La docg arrivò nel 1983 e, anche grazie a un artificio regolamentare, il Nobile fu il primo “garantito” italiano a poter essere stappato visto che, rispetto alle altre tre denominazioni ascese contemporaneamente al vertice della piramide (Brunello, Barolo e Barbaresco), il disciplinare del vino poliziano prevedeva un tempo di invecchiamento più breve degli altri.
Parliamo insomma di una doc/docg e un vino storici, a volte fin troppo penalizzati sul mercato e dalla critica per la presenza ingombrante e ravvicinata di Chianti Classico e Montalcino.
I festeggiamenti per il mezzo secolo si sono comunque appena conclusi.
Con una sobrietà chiassosa non frequente in simili circostanze.
Tra le tante iniziative promosse dal consorzio, mi sento comunque di metterne in testa due: l’inaugurazione, in fortezza, della nuova enoliteca consortile, con affaccio realmente mozzafiato (aggettivo tanto retorico quanto, in questo caso, necessario) sulla campagna e pavimento trasparente appoggiato sui pozzi di butto romani scoperti durante i lavori, e la verticale di annate storiche (1966, 1970, 1975, 1979, 1986, 1988, due 1995 e due 1999) guidata da Gianni Fabrizio, di cui trovate il dettaglio in calce a questo post.
Nel mezzo una bella cena cucinata dal bistellato Gaetano Trovato del ristorante Arnolfo, l’inevitabile ma sopportabile talk show per parlare di com’eravamo e come saremo, la presentazione pubblica del solenne “Inno al Nobile” con le liriche del produttore-e-pure-paroliere Alamanno Contucci dell’omonima e storica cantina e l’esilarante esibizione della “Divinòrchestra“, ensemble di venti musicisti professionisti che, sotto la guida del maestro Luciano Garosi, ha eseguito un “Inno a San Giovese” servendosi solo di articolati strumenti musicali ricavati da attrezzature enoiche (dai “bottigliofoni” alla grancassa-caratello percossa a martello, dagli imbutofoni alle flautobocce: presto un post ad hoc sulle tecniche di costruzione e di uso di questi strumenti).
A dare tuttavia un senso al tutto, come il cerchio lo dà alla botte, è stata, prima della degustazione, la dissertazione guidata da Alessandro Masnaghetti sul territorio di Montepulciano, la sua zonazione e i criteri per metterla a punto. Una chiacchierata in disteso contraddittorio con i giornalisti presenti, quorum ego, a proposito di un tema che spesso sfocia in tecnicismi tanto ideologici quanto inutili.
“Le colline parlano“, ha esordito il Masna per tentare di spiegare e tracciare la sua via in qualche modo umanistica, e non solo tecnico-scientifica, alla rappresentazione di un’area vinicola. E ha elencato poi gli elementi che usualmente considera (lui, affermato editore de “I cru di Enogea“, collana di raffinate mappe enoiche delle principali denominazioni italiane) per individuare e circoscrivere un comprensorio: paesaggio, storia, toponomastica. Un approccio eccessivamente scientifico, ha aggiunto, rischia sennò di irrigidire troppo il territorio e il (pre)giudizio sui vini che vi sono prodotti, lo ingabbia, gli toglie quell’elasticità che il sovrapporsi della mano dell’uomo alla natura ha donato loro. Un criterio forse a sua volta troppo rigido – gli è stato chiesto – nel bypassare elementi di classificazione di indubbio rilievo, come la geologia?
Nella geologia c’è troppa variabilità per dare filo a un’idea di continuità capace di abbracciare un territorio vinicolo, ha ribattuto. Meglio invece privilegiare, in uno studio di zone e sottozone, i toponimi, che rappresentano per la gente locale uno dei fattori più fortemente identitari e sono quindi i più utili per illustrare all’utente di una carta le peculiarità trasversali dell’area che si esamina. Non sarà difficile in questo modo, ha concluso Masnaghetti, giungere a dare al lettore ciò di cui ha bisogno: informazioni che non solo descrivano tecnicamente il vino, ma lo spieghino. “E’ del resto singolare e significativo al tempo stesso – ha concluso – che i risultati di una zonazione odierna giungano agli stessi risultati raggiunti negli anni ’90 dall’allora consiglio del consorzio, che si era basato sull’analisi delle tradizioni locali“.
Anche la degustazione che ne è seguita era in fondo una sorta di “zonazione cronologica” del Vino Nobile, dei suoi stili e dei suoi disciplinari nel trentennio intercorso tra il 1966 e il 1999, con cambi di norme, di uvaggio, di mano enologica.
Ecco, per gli invidiosi (come non capirli, comunque?), l’annunciato dettaglio:
– Contucci 1966 (sorprendente)
– Fanetti 1970 (un po’ stanco)
– Fanetti 1975 (ancora vivo)
– Boscarelli 1979 (uno dei miei preferiti)
– Bindella 1986 (un vino di transizione)
– Poliziano Caggiole 1988 (un altro dei top)
– Gracciano della Seta 1995 (decisamente vivido)
– Poliziano 1995 (discreto)
– Bindella 1999 (molto anni ’90)
– Valdipiatta Vigna d’Alfiero 1999 (fresco e tanninico).