In un libro della giovane giornalista Sara Stefanini presentato ieri a Roma, “Giornalismo partecipativo o narcisismo digitale?“, l’analisi della realtà bifronte di certa informazione di oggi, costretta tra la necessità compulsiva di sapere “tutto” (anche l’inutile) e la dilagante smania di protagonismo alimentata dal proscenio globale delle rete.

Avrei dovuto esserci anch’io, ieri a Roma, a presentare quest’interessante libello (Aracne Editore, 134 pagine, 10 euro) della collega Sara Stefanini, ma per cause assai poco 2.0 (un pedestrissimo sciopero dei mezzi pubblici capitolini) ho dovuto mio malgrado rinunciare. Cosa di cui mi scuso pubblicamente con l’autrice.
E quindi scrivo qui quello che avrei voluto dire a voce.
L’annuncio dell’uscita del volume, del resto, mi aveva già dato lo spunto alcune settimane fa per un post molto seguito e commentato (“L’egosurfing giornalistico e il paradosso del suicida“, qui) ed è da questo che voglio cominciare.
ll giornalismo partecipativo – spiegava Sara nella nota che è poi anche diventata lo strillo in quarta di copertina – dà voce a quei cittadini considerati da sempre passivi e avvolti dalla grande spirale neumanniana del silenzio. Il narcisismo digitale altro non è che l’altra faccia della medaglia. Chiamato anche egosurfing, è presente nell’Oxford English Dictionary già dal 1998 ed indica il presenzialismo su Internet. Ormai, l’informazione si costruisce insieme, nel piccolo grande villaggio globale, unito dalla Rete e diventato g-locale eliminando le distanze e dimezzando i tempi”. “Ad ogni modo – scrive invece nell’ultima pagina del libro – il giornalismo partecipativo è diventata una realtà concreta nel mondo della comunicazione e questo anche i critici più scettici devono e possono confermarlo. Insieme alla tradizionale forma di giornalismo, quello partecipativo di deve impegnare a tenere costantemente informati i cittadini evoluti in cybernauti, con la speranza che un lettore di oggi possa diventare lo scrittore di domani“.
Dico subito che dissento totalmente da alcune di queste affermazioni.
Prima di tutto non credo affatto che, gaberianamente, “democrazia è partecipazione”.
Ritengo al contrario che l’utopia di un’informazione che viene dal basso, affidata, senza i filtri professionali dettati dalla preparazione e dall’esperienza, alla gente comune, sia il miglior megafono della propaganda, cioè alla (e della) manipolazione della verità e delle notizie, che dell’informazione (e della democrazia) è l’esatto opposto.
Lo strumento, il diavoletto, anzi il demone che di tutto ciò è l’artefice è quella forma evoluta e tecnologicamente dopata di narcisismo che è appunto l’egosurfing: una sorta di delirio di onnipotenza dettato dall’illusione che, per il fatto di poter essere comunicato a tutti e in un battibaleno, il mio pensiero, il mio parere, il mio punto di vista, la mia testimonianza assumano automaticamente dignità di informazione o di rilevanza.
Perchè, diciamolo chiaro e tondo, molto di quello che pomposamente viene messo in rete e spacciato per giornalismo, anzi per citizen journalism, non è affatto giornalismo (ovvero un insieme di notizie verificate, ponderate e passate attraverso il controllo di un professionista), ma spesso è semplicemente la testimonianza di quello che IO ho visto, o mi è sembrato di vedere, o credo di aver visto, o mi hanno fatto credere di vedere o di cui ho visto una parte sola. Insomma, qualcosa in cui la componente soggettiva è preponderante. L’espressione di una sindrome, se si vuole, uguale e contraria a quella che spinge il solito tipo con la manina a mettersi alle spalle del telecronista per fare ciao alla mamma e poi godere nel rivedersi in tv.
Non credo affatto, di conseguenza, che il “giornalismo partecipativo” sia una forma “diversa” di giornalismo.
Il giornalismo, a mio parere, è uno solo. Una professione che può essere esercitata in tanti modi, incluso il ricorso alle nuove tecnologie e alla ripresa in diretta di fatti e avvenimenti, ma sempre unica. Il resto è “altro” dal giornalismo. Non so come chiamarlo e non ne do un giudizio di qualità nè di valore, di sicuro però non è giornalismo.
Vengono in soccorso della mia teoria un articolo di Mauro Covacich pubblicato oggi sul corriere.it (qui), che si intitola “Ecco perché parliamo tanto di noi. La formula di Twitter e Facebook: nel cervello si attivano le stesse aree di cibo, denaro e sesso”, e un altro uscito sul blog di Giuseppe Granieri sull’Espresso (qui), titolato ” Perché il futuro -forse- è dei giornalisti e non dei giornali”.
Una lettura convergente dei due pezzi porta già a dare una risposta plausibile al quesito posto dalla Stefanini. Un quesito al quale peraltro la collega giunge – e questa è la parte importante, per non dire preziosa, di un libro che in tal senso è una miniera di informazioni e di spunti di riflessione – attraverso un’attenta analisi del “fenomeno” web, del giornalismo on line (nato in Usa venti anni fa tondi tondi) e dei suoi sviluppi anche nei confronti dell’opinione pubblica e della nascita della cosiddetta e-democracy.
Se da un lato il febbrile interesse e la partecipazione compulsiva del pubblico al flusso ininterrotto che circola sulla rete, attraverso l’immissione di news sempre meno individuabili nelle categorie della notizia giornalistica o in quella dell’informazione personale, si spiegano non come effetto di un’accresciuta “coscienza critica” dell’utente, bensì di stimoli nervosi derivanti dall'”aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche” del cervello, dall’altro, nel futuro del web, “…per i giornalisti si apre un nuovo modo di lavorare […]. Sarà sempre più strategico per i giovani giornalisti – oltre a fare informazione – avere la capacità di trovare una propria voce […], di cercare e mantenere un rapporto diretto con il proprio pubblico. E si apre una domanda che potrebbe essere interessante per la strategia futura delle testate. Se i lettori cominciano in massa a fare come faccio io, che «compro il giornalista» e non più la testata o il prodotto, che tipo di assetto possiamo immaginare tra 5 anni per l’editoria dell’informazione?“.
Conclusioni, se non ineccepibili, stimolanti e foriere, almeno per me, di ulteriori spunti di discussione.
Ma che implicano un assunto nel quale, probabilmente, sta anche una risposta assai attendibile alle domande sottese dal libro di Sara Stefanini: il giornalismo partecipativo sembra delinearsi come una sorta di medio proporzionale (di declinazione caratteriale? Di succedaneo egoistico?) tra il narcisismo digitale e il giornalismo vero e proprio. Un fenomeno interessante.
Che però rimane appunto un’altra cosa dall’informazione professionale. Quella cioè fatta non solo per mestiere, ma con l’assunzione delle responsabilità (civili, penali, etiche e deontologiche) e l’adempimento del ruolo che le sono propri.