di URANO CUPISTI
Anno 2003, viaggio in solitaria in uno dei pochi paesi africani che all’epoca si potevano attraversare da un capo all’altro senza problemi. Salvo incontrare connazionali molesti.
Quando uno è un bambino, l’Africa la immagina più o meno così: deserti con dune gigantesche e mutevoli savane, foreste abitate da animali conosciuti e meno conosciuti, tribù dedite alla pastorizia o alla caccia, spiagge infinite, cascate tra le più alte al mondo, fiumi che finiscono in paludi mastodontiche e qua e là qualche residuo fotogramma dei vari colonialismi succedutisi nel continente.
Quando invece uno è grande e può viaggiare, tutto quello sopra lo trovi in Namibia, un vero e proprio concentrato d’Africa.
Un tempo si chiamava Africa Equatoriale Sud-Est Tedesca (Deutsch-Südwestafrika). Popolazione che non supera i 3 milioni di abitanti (concentrati per lo più intorno alla capitale Windhoek) su di una superficie di poco più di 800mila kmq.
A dire il vero, quando nel 2003 decisi di andare laggiù, uno dei motivi principali della mia scelta fu la libertà di movimento che il paese offriva, cioè la possibilità di attraversarlo in solitaria senza problemi da nord, al confine con l’Angola e lo Zambia, a sud, cioè al confine col Sudafrica, nonchè da est (il Botswana) all’Oceano Atlantico con le sue fredde correnti provenienti dall’Antartide, foriere di foche, balene e pinguini. E poi si poteva dormire in ostelli, campeggi, piccole guest-house gestite dai discendenti dei Boscimani anziché dei Nama, dei Damara e più in generale dalle tribù Bantu come gli Herero e gli Ovambo.
Arrivai dopo tredici ore di volo, ritrovandomi catapultato in una Windhoek che scoprii città modernissima, ricca, piena di hotel, negozi e auto di lusso che sfrecciavano per strada. Accerchiata però dalle squallide bidonville dei diseredati.
A muovere le leve del comando non era la borghesia bianca degli afrikaners (soprattutto discendenti dei colonialisti luterani tedeschi), ma la borghesia “colored” nata dalla SWAPO (South West African People’s Organization), all’inizio marxista-leninista ma presto addolcitasi in una parvente socialdemocrazia.
Affittai una 4×4 e per recitare la parte acquistai la muta coloniale d’ordinanza (canottiera grigio-verde, camicia e pantaloncini bermuda color kaki, calzettoni anch’essi militari, scarpe da deserto, cappello da ufficiale con copri-nuca). Su consiglio del sorridente commesso africano feci cucire sulla divisa una bandierina italiana al posto della tedesca: “Molto meglio assai”, mi fece capire lui. E poi via verso il Deserto del Namib.
Appena fuori di Windhoek, in una stazione di rifornimento, incontrai una famiglia di italiani con padre, madre e figlioletto al seguito, che da ora in poi, per la privacy, chiamerò Rossi. Mi bombardarono di domande: “Chi sei, da quale regione vieni, dove vai, che ci fai qui da solo“, etc. Capii che dovevo sganciarmi il prima possibile.
Dissi che avevo un appuntamento a Sossusvlei con un amico (il solito amico invisibile che salta fuori al momento del bisogno), ma la mia bugia non resse. Fu il bimbo sapientino che mi fece fare la figura del bugiardo.
“A Sossusvlei dove? All’ingresso del Parco? Ad un Lodge di Sesriem? Lungo la via dopo il Passo Spreetshoogte, alla stazione di rifornimento di Solitaire?“, mi chiese a bruciapelo. “Caspita – risposi – il bambino conosce bene la Namibia, ci eravate già stati?“. La risposta fu memorabile: “No, è lui che ha preparato il viaggio e noi ci fidiamo“.
Iniziai a percorrere la C26 per Walvis Bay e poi la C1275 direzione Solitaire. Più di 300 km tra strade sterrate, in parte asfaltate, in un paesaggio arido dove incontrai gazzelle, struzzi e lepri del deserto che fuggivano a zig zag disturbati dal rumore del mio fuoristrada. E la famiglia Rossi dietro, quasi a braccarmi.
Dopo cinque ore abbondanti arrivai alla stazione di servizio di Solitaire e mi toccò pranzare con loro. C’erano dei ragazzini che cercavano di coinvolgere il saputello nei loro giochi, ma lui nisba: doveva tracciare sulla mappa la rotta del giorno dopo, tra il Dead Vlei , la Duna 45 e la Duna 40.
“Tu vai alla 45?“, disse.
“Forse, perchè?“, risposi.
“Noi andiamo alla 40, è la più bella, la più dura da scalare, quasi una montagna“, sentenziò, mentre io consolidavo la mia spontanea antipatia per quel moccioso saccente.
Finalmente, all’ingresso delparco ci salutammo: loro proseguivano verso il Sesriem camping. “È il punto di partenza migliore domattina all’alba“, mi ammonì immancabilmente il simpaticone in calzoni corti. “Io mi fermo al Desert Quiver Camp e vi raggiungo domani“, mentii spudoratamente.
Lì trascorsi una notte indimenticabile per il silenzio, il firmamento fermo sopra di me come una grande cupola, Croce del Sud: non riuscivo ad andare a letto.
Al mattino, di buon’ora, mi avvio verso la Duna 45, così chiamata perchè è al km 45 della statale. Pensavo di essere da solo e mi ritrovai invece in mezzo a un sacco di gente che già alle 6.30 era in cammino verso la vetta.
Dei Rossi, per fortuna, nessuna traccia, ma a fare chiasso c’erano giapponesi, americani, inglesi e tedeschi. Mi venne in soccorso il calore del sole. Alle 8 ero da solo in cima. Faceva un caldo sopportabile. Sotto di me, le linee sinuose della una e un deserto infuocato di colore rosso mattone.
Dopo fu la volta della Dead Vlei, visione impressionante visione di un nulla in apparenza mortale, ma che in realtà nasconde animali e albero tenuti in vita dall’umidità proveniente dall’Oceano.
Ripassai davanti alla Duna 45 ancora assediata dai turisti e rientrai per organizzare la tappa del giorno dopo: la Spitzkoppe, a nord-ovest della capitale. Altri 400 km di strade miste, tra struzzi, antilopi, aquile africane e quei “simpatici” animaletti, i suricati, che stanno abitualmente in piedi sui cigli delle strade vuoi per difendersi dai predatori, vuoi per predare loro stessi. Alla meta c’era un solo campeggio, che avevo prenotato da tempo.
Fu come tornare all’età della pietra. Spitzkoppe è una vetta di circa 1700 mt nel cuore del Damaraland, con un paesaggio di canyon, grandi massi tondi, grotte piene di pitture rupestri.
Incontrai qualche appassionato di archeologia e di alpinismo. Poca gente, insomma, che poi la sera ritrovai al camping. Bello parlare con loro e ascoltare le loro storie. Ecco la Namibia desertica che volevo e la compagnia che cercavo, quella che non fa domande personali.
Anche lì, però, ci sono i posti imperdibili, quelli che è come andare a Roma e non vedere piazza San Pietro. In Namibia, non visitare Swakopmund e la Scheleton Coast è la stessa cosa.
Arrivai al tramonto. Il sole basso sull’oceano ad illuminarla. La città sembrava una grande zuppiera con dentro tante case basse in stile bavarese, coi balconi pieni di fiori, le insegne in gotico, i nomi delle strade rigorosamente in tedesco, qualche palma tanto per ricordarti che sei in riva all’oceano, un lungomare simile a una cittadina del nostro sud, una pulizia “esagerata” e una chiesa luterana. Piove poco, figuriamoci se nevica. Eppure i tetti delle case hanno i tetti acuminati e spioventi. Ecco Swakopmund, fondata negli ultimi anni dell’800 dagli Schutztruppen. Oggi è un centro balneare molto amato dalla borghesia bianca e in parte da quella “coloured con i soldi”. Si parla una lingua diversa dal resto del paese: un afrikaans con intercalare bavaresi. La cultura germanica che respiri passeggiando nelle vie del centro: ancora oggi fanno la Festa del Kaiser.
Due giorni di riposo e poi ero pronto per l’avventura della Scheleton Coast.
(continua).