Nel giorno in cui il premier sbarca nella campagna senese per acquistare (forse) una tenuta agricola, gli agricoltori in crisi, venuti da mezza Toscana, si riuniscono lì appresso minacciando la creazione dei “cobas del grano”. Due facce della catastrofe agricola in atto: da un lato chi compra beneficiando di quotazioni fondiarie a picco, dall’altro chi affoga e tenta con ogni mezzo di salvarsi.

Se fossimo una tv all’americana, sottotitoleremmo “breaking news”. Ed in effetti, a Siena e provincia (ma anche altrove direi, visto che la vicenda è in prima pagina sul sito del Corriere della Sera, condita peraltro di non poche amenità), un evento del genere è una notiziona: Berlusconi è sbarcato stamattina all’aeroporto senese di Ampugnano, accompagnato dalla figlia Marina e (pare) dal fido avvocato Ghedini, per visitare una tenuta agricola in comune di Monteroni d’Arbia, scopo acquisto. Mille ettari, immancabile borgo “del XII secolo” circondato da boschi, allevamenti di cavalli e bovini, vigneti di Sangiovese “grosso e piccolo” (sic!), paesaggi mozzafiato, etc etc. Quanto basta per scatenare la stampa locale e non e per riaccendere i riflettori sul più derelitto dei settori dell’economia italiana: l’agricoltura.
Il Berlusca infatti, oltre che un politico, è un abile uomo d’affari. E gli uomini d’affari fiutano i buoni investimenti. I quali sono tali quando i prezzi sono bassi. E se sono bassi vuol dire che a qualcuno, anzi a parecchi le cose vanno male, perciò c’è chi è disposto a vendere a modeste pretese, se non modestissime.
Cosa di meglio, allora, che investire in beni “a saldo”?
E infatti il Berlusca si affaccia nelle Crete Senesi.
Non è un caso, del resto, che proprio nel giorno in cui il premier fa scatenare la agenzie di stampa con le sue incursioni rurali, anche gli agricoltori della medesima zona (nutritamente accompagnati però da quelli di mezza Toscana, a dimostrazione che il problema è ben più vasto) si riuniscano stasera ad Asciano, il “capoluogo” delle Crete Senesi, per discutere e provare a trovare una soluzione alla gravissima crisi in cui versa l’intera agricoltura della collina interna italiana e soprattutto il settore ceralicolo (i cereali sono una delle poche colture a cui i terreni argillosi sono vocati), che da 18 mesi è in caduta libera. Dai 50 euro al quintale del 2008, il grano duro (quello con cui si fa la pasta e che le Crete producono di qualità eccelsa) è piombato a 12 euro e la discesa non pare destinata ad arrestarsi. La prospettiva è chiara: allo stato attuale, chi produce lo fa in perdita. Alternative: non seminare affatto e quindi chiudere l’azienda. Conseguenze: parco macchine a marcire, terreni abbandonati, assetto idrogeologico compromesso, economia in malora, indotto affossato, operai a spasso, imprenditori agricoli in pantofole, paesaggio degradato (con ciò che questo comporta per l’immaginario collettivo e turistico della Toscana rurale, presunta “felix”). A ciò si aggiungono contributi comunitari (in verità un sussidio di sopravvivenza) in progressivo ribasso e una Pac (la politica agricola della Ue) in scadenza nel 2013 senza che finora si sappia cosa accadrà dopo.
Insomma, un dramma che si somma agli effetti della crisi economica generale.
Non è un caso dunque che Silvio Berlusconi valuti di sbarcare nelle Crete. L’investimento, vista l’entità dei mezzi, sarebbe irrisorio: venti milioni di euro, testone più testone meno. Puro immobilizzo di capitale: le prospettive di redditività a medio/breve termine sono pari a zero. Ma i luoghi sono belli, le vedute magnifiche, la campagna “profonda”. Omettiamo altre considerazioni di opportunità politica.
Ammesso che l’affare si faccia, rimane però il resto. Drammatico e paradossale. Cioè lo stato di profondo disagio degli agricoltori e dell’agricoltura locali. Tanto profondo che, dalla riunione di stasera, sono stati esplicitamente banditi i rappresentanti delle grandi organizzazioni agricole, ritenute corresponsabili, quando non colluse, della situazione attuale. Una situazione, in verità, le cui origini sono ben più lontane di quelle che gli arrabbiatissimi coltivatori credono. E con soluzioni ancora più remote. Nessuno gli ha spiegato, nè loro hanno capito, che l’agricoltura è da sempre il capro sacrificale da immolare sull’altare dei compromessi nazionali in sede Ue. E che, a sua volta, in sede Wto (l’organizzazione mondiale del commercio) l’Ue è vassalla di interessi e potenze più forti, alle quali essa “offre” l’agricoltura e i suoi prodotti come merce di scambio politico.
Ma i tenaci cerealicoltori non mollano. Debiti, mancanza di liquidità, asfissia finanziaria, sottocapitalizzazione cronica, perdita delle prospettive (e, diciamolo, a volte una certa ingenua faciloneria nel gestire cose complesse) mordono alla gola. Già si parla di “cobas del grano”. Gli enti pubblici tacciono, non si sa se per prudenza o per imbarazzo. Stanno a guardare dall’alto del palazzo una rivolta che, sorda, è montata pian piano dal basso ed è cresciuta sotto traccia fino al momento in cui è impossibile contenerla. Non ci sono pezzuole lenitive da offrire.
Mentre il rombo dell’elicottero berlusconiano di allontana, cresce quello dei trattori, pronti a proteste di piazza clamorose.
E’ buffa questa concomitanza, frutto dello stesso fenomeno: di qua chi, impotente, va in rovina, di là chi, potente, investe. Ma il secondo è solo il beneficiario, non il responsabile delle disgrazie dei primi. E’ il mercato, bellezza? Forse. Resta il fatto che senza l’agricoltura umana, capillare, quotidiana, tradizionale anche il paesaggio rurale scompare. Se scompare il paesaggio, scompare la campagna. Se scompare la campagna scompaiono i prodotti, il turismo, i fotografi e le vedute “mozzafiato”.
Nell’interesse dei (possibili) venditori della tenuta di Monteroni, speriamo che Silvio non se ne accorga troppo presto.