Circola in rete (qui) la cronaca, in verità un po’ raffazzonata, di un convegno tenutosi ieri a Roma sul “Rapporto tra libertà di informazione e tutela della dignità delle persone”. Con molte banalità e qualche interessante spunto di riflessione sul “giusto compenso”.
Scorrendo la cronaca, la cosa più intelligente sembra averla detta, come gli capita spesso, il presidente dell’Ansa, Giulio Anselmi: “Benedetto il capocronista che chiede notizie, perchè questo mondo è pieno di giornalisti che pensano che un articolo sia come un temino“.
Si parlava, immagino in un’atmosfera di noia mortale, del rapporto tra libertà di informazione e tutela della dignità delle persone. Tema altisonante, per carità. Ma a proposito del quale è difficile ormai dire cose originali o meno che ovvie. Così il discorso è presto scivolato su altro argomento abusato, ma almeno di palpitante attualità: la dignità di chi l’informazione la produce, ovvero i giornalisti “precari”.
Metto le virgolette perchè chi mi legge ben conosce l’orticaria che l’uso a sproposito di questa parola (cioè nel senso generico di “non contrattualizzati” anzichè di “titolari di un contratto a termine“) mi procura. Ma non è questo il punto.
Il punto è la deriva surreale che, per l’ennesima volta, il dibattito romano sembra aver preso, finendo per chiedersi quali fossero i rimedi da opporre alla “carenza di dignità” nella quale la professione esercitata dai sottopagati o nullapagati sarebbe sprofondata. E capovolgendo così, as usual, i reali termini della questione.
Che sono i seguenti: non se ne può più del piagnisteo dei giornalisti a cottimo, pagati tre euro a pezzo spese incluse, che si lamentano di non riuscire ad arrivare a fine mese e rivendicano la loro dignità.
Non se ne può più perchè una cosa “pagata” tre (o cinque, o dieci, o venti) euro non è un lavoro, ma un hobby, o al massimo una forma di volontariato esercitata a favore di chi, peraltro, generalmente non ne ha bisogno, cioè un editore. Chi accetta di operare a quelle condizioni non può essere considerato un lavoratore, e quindi nemmeno un giornalista sfruttato, perchè esistono lavori tanti lavori (direi tutti) pagati meglio di tre euro l’ora (e un pezzo richiede in genere ben più di un’ora per essere pensato, documentato e scritto). E quindi chi scrive articoli a quelle cifre lo fa mancando per primo di rispetto a se stesso e offendendo così la propria dignità. La quale ne uscirebbe assai più tutelata se si avesse il coraggio di ammettere la verità: e cioè che quell’attività è un passatempo, una passione, ma non un lavoro. Perchè è lavoro ciò che produce un reddito per vivere e quelle sono cifre con cui non si può sopravvivere.
Sento già l’indignazione e gli alti lai di chi si sente vittima del sistema e non capisce, invece, di essere vittima di se stesso.
Mi dispiace, ma non intendo offenderli.
Dico solo la verità.
Ovvero che il rimedio ai compensi da fame, ovvero ai compensi simbolici, anzi ai non-compensi in vigore nel mondo editoriale italiano è il più semplice che possa esistere: dire di no. Rifiutare remunerazioni che neppure intaccano il valore del prodotto realizzato. Semplicemente voltare le spalle o, come detto sopra, accettare il fatto che si tratta di un hobby, non di un lavoro. E in genere gli hobby costano, non rendono. Attenzione, non parlo dei lavori pagati poco o molto poco (faccio parte di chi crede che nei momenti difficili ci si debba anche saper accontentare), ma di quelli pagati nulla o l’equivalente del nulla. E cinque euro per un articolo che richiede ore di impegno sono nulla.
Anche questo mi pare far parte integrante dei doveri deontologici richiesti agli appartenenti alla categoria: aver rispetto di se stessi, della propria professionalità e della professione che si esercita.
Perchè, come dice Anselmi, un articolo non è un temino. Se sono professionale io le notizie non le “do” al giornale, le vendo. E la vendita presuppone un prezzo, un corrispettivo, non un semplice “grazie”, più o meno contornato da spiccioli. Sennò è elemosina, non giornalismo. E l’accattonaggio non è una professione.