Riascoltando vecchie incisioni del rocker inglese appaiono in tutta evidenza la grandezza dell’artista e la sinuosità dei percorsi che possono accompagnare un musicista nei meandri dello show business
Soundtrack: http://www.youtube.com/watch?v=wVkSZtGNukA&feature=related Graham Parker, “Temporary beauty”
Ci sono personaggi che a vederli da vicino ti fanno capire bene quanto sia fragile il diaframma che separa il mondo delle star da quello dei comuni mortali, quanto sia effimera la partizione fra successo e oscurità e soprattutto quanto concretamente abissali siano le distanze – a prescindere dal successo e dal coinvolgimento nello star system – tra artisti veri e celebrità di plastica.
Graham Parker è uno di questi. Uno di quelli, cioè, che, sebbene dipinto dall’oleografia per appassionati di bocca buona come un semplice appartenente alla sempre utile categoria dei “perdenti”, di chi la fama l’ha appena sfiorata, di chi ha sprecato le proprie chance nel music business, una vera star non avrebbe mai potuto diventarlo. Per mille ed oggettive ragioni: voce, tipo di scrittura, trasversalità di influenze, inclinazione, carattere, suono.
Lo pensavo ieri sera, tornando in macchina a casa sotto una pioggia battente e molto british, mentre ascoltavo un magnifico cd uscito nel 1998 ma su cui avevo messo da poco le mani e che, incredibilmente, non possedevo nonostante il mio dichiarato amore per il musicista: “Not if it pleases me” di Graham Parker & the Rumour. Quindici fulgide canzoni registrate in parte nel 1976 per il programma di John Peel alla BBC e in parte dal vivo l’anno successivo, quindi prima dell’uscita di “Stick to me” e dopo i due folgoranti dischi d’esordio “Howlin’ wind” e “Heat treatment”. Quello che si definisce uno dei periodi d’oro dell’artista inglese. E si sente: un’infilata di pezzi (ri)eseguiti con una passione, una compattezza, una freschezza e una perizia da mettere i brividi. I Rumours al completo fanno faville per brillantezza, pulizia e misura, mentre Parker canta usando la sua voce roca, ma mai cartavetrosa né convenzionale, come una raspa che verso dopo verso scava nel cuore, rilegge, reinventa, riecheggia le canzoni, quasi compiacendosi che dall’esecuzione di ognuna via via affiorino, in un processo naturale, tutte le più screziate ascendenze: dalle mai rinnegate nouanches rollingstonesiane a certe altrettanto compiaciute inflessioni errebi, dai meno evidenti ma chiari rigurgiti del songwriting britannico dei primi ’70 a una certa rotondità e ampiezza di suono che sarebbe facile ascrivere all’etichetta “pub”, se questa avesse un senso, e che a noi piace invece attribuire a più ampie influenze pescate sempre in un classico rock inglese.
Un disco che non è inutile riascoltare anche alla luce di ciò che è accaduto dopo nella carriera di Parker, catturato all’epoca nel momento in cui sembrava sul punto di spiccare (commercialmente parlando) un volo che non è mai spiccato, per ripercorrerne i passi borderline lungo i sentieri dell’industria discografica, i dischi belli e quelli meno belli, ma sempre molto onesti, la profonda dignità che l’ha condotto spesso a repentini cambi di etichetta e di produzione.
Da tempo Graham Parker ha scelto di esibirsi da solo nei club americani con voce, chitarra e un vasto seguito cult. Il mese scorso l’abbiamo mancato per un pelo al raffinato Poisson Rouge di NY. Appuntamento solo rimandato.