Per il congresso dell’Fnsi la Commissione Lavoro Autonomo ha preparato un documento sulla crisi di liberi professionisti e precari. Non manca nulla (situazione, rivendicazioni, priorità, appelli alla libertà e alla qualità dell’informazione), tranne due cose: la presa d’atto che forse è troppo tardi e l’ammissione che la categoria ha uno spessore molto modesto per accampare troppe pretese.
E’ cominciato ieri a Bergamo il 26° Congresso dell’Fnsi, il (sedicente) “sindacato unico” dei giornalisti.
La categoria è alla proverbiale canna del gas, ma ciò non toglie che, sebbene ormai in un clima da Titanic che affonda, in vista dell’assise si siano combattute le rituali guerre di potere e di retroguardia, tessuti i rituali intrighi di palazzo e vibrate, nel nome delle avverse “correnti“, le immancabili pugnalate tra (falsi) amici.
Non è di questo tuttavia che voglio parlare, ma del “DOCUMENTO DELLA COMMISSIONE PER IL LAVORO AUTONOMO PER IL XXVI CONGRESSO DELLA FNSI: FREELANCE E PRECARIETÀ: PER I DIRITTI DEL LAVORO, PER LA LIBERTÀ E LA QUALITÀ DELL’INFORMAZIONE” (il testo è qui), che ho appena ricevuto dal collega Saverio Paffumi, membro della commissione stessa.
Un documento che, in una lunga e attenta disamina (vorrei ben dire, mi viene da commentare, visto che sento discutere delle stesse cose da almeno quindici anni), elenca tutti i punti di criticità della situazione professionale dei freelance e dei precari (due categorie, non mi stancherò mai di dirlo, diverse e per certi aspetti addirittura contrapposte, ma che per abitudine e brevità ci si è abituati ad abbinare), avanzando poi tutta una serie di sacrosante rivendicazioni di tipo economico e giuslavoristico.
Poichè ne ho parlato in questo blog già altre mille volte, non le sto a elencare nuovamente: per conoscerle basta andare a leggersi il corposo papier.
Quello che invece salta agli occhi, in una così completa analisi, sono le lacune: due, ma gigantesche.
Frutto, la prima, della cronica, corriva incapacità di autocritica dell’Fnsi. La seconda, frutto invece dell’ancora più macroscopità incapacità di autocritica del ceto giornalistico in generale e del suo organo di rappresentanza, l’Ordine.
Lacuna numero uno: la diagnosi sulla crisi del settore è giusta, ma clamorosamente tardiva. Tanto tardiva che il malato è agonizzante, forse incurabile e che ogni terapia sembra essere ormai un puro accanimento. Bisognava svegliarsi prima e dare ascolto alle grida di dolore che per anni, ignorate, sono giunte dal basso. Ma della voce di quelle Cassandre nel documento non c’è traccia. E oggi rischia di essere poco onesto continuare a dare illusioni, quando le speranze di salvezza sono al lumicino.
Lacuna numero due: giusto chiedere garanzie contrattuali, tutele economiche, leggi e norme – oggi inesistenti – che difendano i liberi professionisti dell’informazione e coloro i quali sono titolari di contratti a termine, ma a fronte di che? Di quale qualificazione, professionalità, capacità? Quale spessore hanno da offrire i giornalisti italiani come corrispettivo delle loro richieste? Risposta sincera: poco o nulla. Quello di “giornalista” è l’unico titolo professionale che in Italia si acquisisce senza superare un esame o ottenere una preventiva qualifica. Basta la licenza media e poi per chiunque si spalancano le capienti porte dell’OdG. Già diventare “pubblicisti” è ridicolo: una sessantina di articoletti, la cui qualità è giudicata con ampi margini discrezionali dai consigli regionali dell’Ordine. Se a questo si aggiunge (per una sorta di sciocco e autolesionistico buonismo, o per tenere alto il volume delle quote annuali da incassare) il crollo verticale delle soglie minime di detta qualità, nonchè della “congruità” dei compensi per gli articoletti presentati, il quadro è già fosco. Mettiamoci poi il boom di candidati e aspiranti determinato dall’esplosione negli ultimi anni dell’informazione via web e il quadro diventa catastrofico.
Ma anche diventare “professionisti” è relativamente agevole,: sebbene ci sia di mezzo un esame di stato scritto ed orale che, in teoria, avrebbe tutte le caratteristiche per essere un vero sbarramento, superarlo è facile per la manica larghissima nei controlli, la scarsa severità nei giudizi, l’amplissima tolleranza delle lacune di cultura generale e tecnica. Per non dire delle scuole di giornalismo, che danno l’accesso diretto all’elenco dei professionisti.
Insomma: se a diventare giornalisti e a restare tali ci vuole “poco” (e quindi si è pure “tanti”, infinitamente troppi per lo spazio offerto dal mercato del lavoro nel settore), come si spera di poter ottenere non dico “tanto”, ma anche qualcosa?
Speriamo che di tutto ciò gli accanitissimi delegati al congresso bergamasco si ricordino, tra una pausa e l’altra delle riunioni carbonare che si consumano nei corridoi e che costituiscono il vero contenuto di quell’appuntamento.