di STEFANO TESI.
La storica fattoria della famiglia Origo, proprio di fronte a uno degli scorci più famosi della Valdorcia, apre il suo ristorante. Nei locali dell’ex dopolavoro rurale edificato per i mezzadri nel 1939. Tra pura tradizione e qualche esperimento dello chef Paolo Anelli.

Luce. Grandi vetrate. Toni pastello chiari. Foto d’epoca, quasi tutte in bianco e nero. Bancone di mattoni.
Sembra minimalista lo stile scelto da Benedetta Origo e da sua figlia Katia, che lo gestisce, per il nuovo ristorante de La Foce, la storica fattoria della Valdorcia. Quella, per capirsi, della famosa e tortuosa strada di cipressi immortalata in mille guide della Toscana, del celebre giardino monumentale e del festival “Incontri in Terra di Siena” (qui il programma dell’estate 2012), raffinato appuntamento per musicofili che porta nel cuore della campagna senese i nomi più prestigiosi della musica da camera mondiale. Ma a pensarci bene è uno stile più caldo e familiare. Che agli occhi di chi ha vissuto un po’ di ruralità richiama irresistibilmente certe istantanee del passato.
Il locale è ricavato infatti dall’ex dopolavoro rurale, il circolo ricreativo fatto costruire dai genitori di Benedetta, Antonio e Iris Origo, a beneficio delle famiglie mezzadrili, nell’ambito del disegno illuminato che, negli anni ’20 e ’30, spinse la coppia a trasformare quella remota proprietà in una fattoria modello, circondata da un sistema di straordinari giardini disegnati dall’architetto inglese Cecil Pinsent, lo stesso della villa fiorentina di Bernard Berenson, I Tatti. E dove, durante la guerra, furono accolte famiglie di sfollati e prigionieri, in un’epopea che Iris raccontò poi nel suo celebre “Guerra in Valdorcia“.
Oggi che la guerra non si fa più coi cannoni, ma con l’economia, non ci sono le bombe ma l’agricoltura soffre ancora. Salvata, per ora almeno, dal turismo e dallo paesaggio superlativo che lo alimenta.
Da qui la scelta della proprietaria di aprire il ristorante, per dare sfogo anche alla produzione oleicola aziendale e ai frutti dell’orto, da cui i piatti attingono abbondantemente.
La sfida era in realtà meno semplice di quello che potrebbe sembrare.
Di ristoranti che propongono i piatti tradizionali la Toscana è infatti piena, compresi quelli specializzati in cucina “contadina”. La retorica insomma è dietro l’angolo. E la qualità delle materie prime sembra più un punto di partenza che di arrivo per un ristorante in cui il livello è elevato e il cui conto finale, fatalmente, si adegua (la spesa media per un pranzo completo è di 50 euro più i vini: bisogna però sottolineare che le porzioni sono molto abbondanti e raramente si ordina proprio tutto).
Coraggiosa anche la scelta di affidare il tutto a uno chef come Paolo Anelli, cuoco di variegate esperienze romane (da “Os Club” a “Gusto”, da “L’Antico Arco” al ristorante stella Michelin “Il Convivio Troiani”, con lo chef Angelo Troiani) chiamato qui a misurarsi con una clientela tutta da scoprire e con aspettative non sempre decifrabili.
Alla fine, invece, la nostra esperienza è stata gastronomicamente molto positiva, grazie a una serie di sapori oltremodo veraci e a un menu che appare l’abile incrocio tra la consolazione di pietanze collaudate e qualche escursione su invenzioni meno ortodosse.
Molto buono, ad esempio, il Fazzoletto croccante di pasta brick con fave, cicoria e crema di porro, delicato e mai invadente. Buona anche, sebbene meno originale (almeno per il mio palato toscano), la Zuppa di ceci, patate, crostini e olio alla maggiorana. Ottimi, senza esitazioni, i Tagliolini alla carbonara di asparagi e gradevole anche la chiusa a base di Crumble di mele verdi, miele e salsa alla vaniglia. Eccellenti pure, ma non c’era da dubitarne, l’extravergine, i salumi e il pane fatto in casa.
Ho lasciato per ultime la portata che mi è piaciuta di più e quella che mi ha lasciato più perplesso. La seconda sono le Polpette croccanti di bollito, salsa verde e crostini di polenta, piatto in realtà ottimo al gusto e che non mi ha convinto solo per ragioni “filologiche“: polpette come queste, fatte di lesso saporito, ma magrissimo e molto asciutto, sono il contrario “logico” di una cucina e di una specialità di recupero per antonomasia come appunto la polpetta, destinata a smaltire gli scarti e il grasso. La prima sono i fegatelli, i tradizionalissimi fegatelli toscani. Dei quali posso dire una cosa sola: mai mangiati così buoni (e lo dice uno che non ama il fegato). Unico neo, il fatto che non fossero in carta (anche se mi dicono che dopo sono stati messi).
Tra i vini, un centinaio di etichette ben assortite tra grandi nomi e piccole chicche territoriali, con ovvia prevalenza toscana tra i rossi e un’appendice di birre artigianali Caullier.
Nota finale: c’è un sentiero che collega il ristorante al giardino della villa, che è visitabile su prenotazione. Una volta lì, non approfittarne è semplicemente un delitto.

Ristorante Dopolavoro La Foce
Strada della Vittoria 90, loc. La Foce (SI).
Telefono: 0578/754025
www.dopolavorolafoce.it
info@dopolavorolafoce.it.

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