Una ventina di scatti di grande formato dilatano il piccolo e il piccolissimo dell’arte dell’antico Egitto, invertendo nel gioco di prospettive – senza cambiarne il prodotto – i fattori di una cultura basata sulla contrapposizione costante tra minuscolo e gigantesco. Nella mostra alla Tethys Gallery di Firenze la sintesi della decennale ricerca di Sandro Vannini e del suo libro-tributo alle antichità egiziane, realizzato a quattro mani con Zahi Hawass.
Lo ammetto, l’Egitto è il mio paese preferito.
L’ho visitato decine di volte, in tutte le sue – a volte sconcertanti, a volte irritanti – sfaccettature. Ne ho esplorate le radici islamiche, quelle cristiane, quelle pagane. Ho costeggiato il Nilo da nord a sud, dal delta a Assuan, e ho viaggiato da est a ovest, dal Mar Rosso ai confini libici. Ho solcato in tralice il deserto, anzi i suoi tanti deserti. Ho ficcato il naso in miniere d’oro e in basi militari, nelle scintillanti dimore di Zamalek e nei tuguri multicolori della Città dei Morti cairota. Ho intervistato monaci-eremiti sotto mentite spoglie e scambiato battute, dopo inseguimenti da spy story, con un Naguib Mahfouz rintanato in albergo a Heliopolis. Ho visitato i monasteri copti e assistito all’alba alle loro messe, ho sfiorato le incisioni rupestri del Gilf Kebir, ho dormito tra i sassi in attesa del passaggio del Rally dei Faraoni, ho brindato con vino dolce alla malinconia degli ultimi italiani di Alessandria e mi sono perduto tra le reminiscenze ellenistiche della Biblioteca, ho guardato negli occhi Serapide e ho stretto la mano dei jabbaleen, i riciclatori di spazzatura nel quartiere-discarica della capitale. Ho navigato su e giù lungo il grande fiume, ora bevendo birra come Poirot e ora trasbordando da una feluca all’altra come un mercante di pesce. Ho incontrato artisti, architetti, archeologi, scrittori, funzionari, artigiani, avventurieri, autisti, taxisti, patriarchi, muezzin, pastori, ufficiali, soldati, baristi, diplomatici, librai e giocatori di dama. Ho girato in lungo e in largo i musei e i siti archeologici, le grandi attrazioni turistiche e i cantieri di scavo, ho scalato di nascosto le piramidi e fatto la coda per la tomba di Tutankamon.
Ma nessuno dei miei incontri è stato forse più emozionante di quello con le mummie d’oro di Baharya, l’oasi-necropoli di età alessandrina venuta alla luce una quindicina di anni fa. Dove i sarcofaghi portati su dai pozzi venivano adagiati in bell’ordine, appena offuscati da un velo di sabbia, in un hangar di legno. Ognuno protetto fino alla vita da una coperta, come immobili malati nella camerata di un ospedale da campo, i grandi occhi e lo sguardo fisso verso il soffitto, nel silenzio surreale del deserto, illuminati dai fiochi neon e dalle lame di luce polverosa che filtravano dalle assi delle pareti.
E’ osservandole da vicino, nei particolari, che per la prima volta mi venne in mente l’idea della contrapposizione tutta egizia tra l’enorme e il piccolissimo, tra il dettaglio e la grandiosità. Dove il primo, nitido e intatto, paradossalmente resiste alla pressione dei secoli meglio del tutto, ulcerato di crepe e ferite che ne denunciano per intero la vetustà.
Quest’idea è riemersa, come un rigurgito, mentre, per scriverne una breve presentazione, scorrevo a video le immagini di Sandro Vannini destinate alla mostra fotografica “Elaborazioni d’Egitto”, in corso fino al 6 gennaio prossimo da Tethys, la nuova galleria di fine art fotography appena aperta a Firenze da Stefano Amantini, Massimo Borchi e Guido Cozzi, amici-colleghi di lunga pezza, nonché compagni di viaggio in tanti avventurosi reportage.
La mostra è il frutto di una selezione degli scatti utilizzati dal fotografo viterbese per realizzare “A secret voyage” (Scripta Maneant Editore), probabilmente il più monumentale (tanto per coerenza con l’esprit d’Egypte), il più bello e il più costoso volume mai realizzato sul patrimonio archeologico egiziano: edizione limitata e confezionata a mano (solo 200 esemplari per l’Italia, corredate da un’immagine stampata su materiale speciale e autografata dall’autore), 50×35 cm di formato, 166 immagini ad altissima risoluzione, copertina in seta nera e cofanetto in plexiglass, costo 3.000 euro).
Questa è la presentazione che poi ho scritto:
“La capacità di fascinazione che il mondo egizio, e più in generale l’Egitto, hanno saputo esercitare sull’osservatore occidentale nel corso degli ultimi duecento anni è fuori da qualunque dubbio. L’iconografia europea (e non solo) – dalla pittura al design, dall’architettura alla pubblicità – è, spesso inconsapevolmente, intrisa di queste suggestioni.
Fondamentale cultura-ponte ora con l’Oriente e ora con l’Africa, ma portatrice al tempo stesso di istanze originali tutte proprie, quella egiziana è dunque fonte di infinite reminiscenze per il viaggiatore.
Nella sua incessante contrapposizione tra l’enorme e il minuscolo, tra il monumento e il geroglifico, tra la massa e l’individuo, il patrimonio culturale della terra dei faraoni si presta infatti ad un ventaglio di interpretazioni incredibilmente variegato.
Quella che Sandro Vannini propone in questa mostra nasce non a caso da un lungo viaggio, reiterato nel tempo e nello spazio, e da una ugualmente cadenzata riflessione, durante i quali l’autore da itinerante si è fatto stanziale. Tanto da fare dell’Egitto il proprio luogo d’elezione. E’ stata questa privilegiata condizione di forestiero-residente a spingerlo, come in un gioco di ottiche, ad accostare e quasi a cercare la quadratura dell’immaginario in una serie di immagini in cui il dettaglio della miniatura e l’imponenza del formato si incrociano, giocano, si scambiano di ruolo, sospesi tra fotografia e collage, arte figurativa e artificio”.
Vale la pena (per la qualità delle foto, non certo per la mia presentazione) di dare un’occhiata.