Giorni fa sono stato invitato come relatore, dall’Accademia Italiana della Cucina di Chieti, al corso di formazione per giornalisti intitolato “Dentro al piatto: la comunicazione alimentare oltre i clichè”. Ecco com’è andata.
Non è mai facile rivolgersi a un uditorio variegato, che riunisce professionalità diverse e tutte – se prese una per una – ineccepibili, ma non sempre capaci di capirsi attraverso un linguaggio e una logica condivisi.
Anche per questo avevo accettato volentieri la proposta-sfida fattami dall’amico e collega abruzzese Antonello Antonelli, uno col quale avevo condiviso la coraggiosa e sfortunata battaglia per l’equo compenso dei giornalisti nell’ormai lontano 2011, di partecipare come relatore al convegno organizzato giorni fa dalla delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina: “Dentro al piatto: la comunicazione alimentare oltre il clichè“.
Tema doppiamente stimolante: in sè, visto che non faccio mistero della mia insofferenza verso l’ingorgo di luoghi comuni che oggi ammorbano l’argomento-cibo e ciò che ci ruota intorno, e perchè l’appuntamento era inserito nell’offerta formativa dell’OdG e quindi avrebbe visto presenti, tra il pubblico, anche un buon numero di colleghi. Occasione eccellente per confrontarsi col giornalismo reale.
Non avendo avuto alcun ruolo e merito, se non quello di intervenire, posso dire che è stato un successo, tanto per la folta e attenta platea (incredibile a dirsi, quasi cento persone, delle quali nessuna se n’è andata, giornalisti compresi, prima della fine), quanto per la quantità e la qualità degli argomenti sollevati.
Il compito affidatomi era, si capisce, quello dell’agitatore, visto che ero chiamato a parlare della deontologia professionale nell’informazione gastronomica, e non mi sono certo tirato indietro. Per fortuna a tenermi bordone, quando non a surclassarmi per vis polemica, c’era anche un personaggio sulfureo come Leonardo Seghetti, professore di chimica e trasformazione dei prodotti alimentari, gastronomo, degustatore, cultore delle tradizioni e soprattutto fustigatore della correlata industria.
A farci da interlocutori, ma non da antagonisti, Mimmo D’Alessio, Componente del Consiglio di Presidenza AIC e Gianni Fossati, Vice Presidente vicario AIC. Nel mezzo, il presidente dell’OdG Abruzzese Stefano Pallotta e il moderatore Antonello Antonelli.
Tra i tanti, quasi troppi per le tre pur lunghe ore disponibili, spunti emersi dal dibattito, la cosa che più mi ha colpito è stata la varietà della dialettica, la differenza dei punti di vista, i cambi di prospettiva con i quali tanto i relatori quanto le domande del pubblico si sono misurati nell’affrontare un tema scivoloso come quello dei clichè alimentari: le ricette tradite, il protagonismo degli chef, il conformismo della critica, gli inganni del mercato, il marketing, le fake news, gli stereotipi, la credulità popolare e certi palati che, sopraffini a parole, si rivelano nei fatti foderati d’amianto.
Tutte questioni che troppo frequentemente – di colpo mi è apparso chiaro! – da giornalisti siamo abitutati a soppesare e misurare con un metro, a valutare con un’ottica che quasi mai non sono gli stessi del consumatore. Il quale, poi, ce ne chiede conto, mettendoci in forte imbarazzo.
Un aspetto inquietante su cui dovremmo riflettere tutti noi professionisti dell’informazione, troppo presi dai nostri dialoghi formulari e dagli approcci iniziatici a temi, viceversa, di natura sanamente quotidiana, perfino pedestri, come il mangiare, il bere, la convivialità, la preparazione del cibo e la sua codificazione.
Così da un lato è emerso il richiamo, al contempo giocoso e severo, degli accademici ad una trattazione più inclusiva, per non dire meno ideologica, della questione gastronomica in generale, da un altro lo smarrimento, condiviso con i colleghi, per una professione che, se in ogni settore dà sintomi evidenti di irreversibile tramonto, nello specifico dell’enogastroetc e dintorni è un bel pezzo già più in là, tanto da risultare un mestiere ormai inaccessibile e impraticabile, se non sotto il versante del puro dilettantismo o delle degenerazioni digitali che ammorbano l’aere.
Così da parte mia, alla fine, non ho potuto che rimarcare come, tanto in questo settore quanto in tutti gli altri, la professionalità giornalistica sia determinata dalla costante convergenza tra una profonda consapevolezza del proprio ruolo, l’applicazione ferrea della deontologia (incluso un controllo severo sul rispetto della medesima da parte dell’Ordine) e una conoscenza del mestiere che parte dal basso, ovvero da quello stato fondamentale del giornalista che consiste nella coscienza aprioristica di non sapere. Quindi non dal desiderio di affermare una verità, ma di cercarla.
Anche “dentro al piatto“.
Cosa, vi assicuro, più facile a dirsi che a farsi.