di URANO CUPISTI
1987: il Napoli di Maradona vinceva lo scudetto e noi dalla scintillante Hobart salpavamo a bordo di un rompighiaccio russo per la Baia di Ross in Antartide, dove il pinguino imperatore vive a -60°.

 

Con un amico lussemburghese conosciuto in Perù (è il bello dei viaggiatori) avevamo progettato un viaggio nella Baia di Ross per vivere un rapporto diretto coi pinguini Imperatore, gli unici che vivono tutto l’anno nel gelo antartico.

Sono i più grandi. Da adulti raggiungono  115 cm di altezza e pesano in media 40 chili, ma d’inverno ingrassano per proteggersi dalle intemperie e resistere a temperature che arrivano a -60°.

Sapevamo che sulla quella banchisa c’era una colonia molto affollata, circa 15mila esemplari. Il desiderio di raggiungere quelle latitudini ed assistere alla vita quotidiana della pinguineria era enorme. Anche perché, trattandosi di una specie stanziale, per vederli bisogna raggiungerli nei loro habitat.

I motivi del viaggio, però, erano almeno anche altri due: visitare la Tasmania e  fare la traversata con un rompighiaccio sovietico adibito a ricerche scientifiche. Un’avventura nell’avventura.

Con François ci trovammo a Sidney, in una calda giornata di gennaio. Il volo per Hobart, la capitale dell’Isola del Diavolo, era previsto il giorno dopo. Dedicammo la mattina ai koala del Wild Life Sidney e tenere in braccio questi piccoli marsupiali fu in effetti emozionante.

Horbat ci accolse in uno sfavillio di luci. Sapevo che la Tasmania degli aborigeni ormai non esisteva più da un pezzo. C’erano solo città modernissime, autostrade, fattorie tecnologicamente all’avanguardia, con un tenore di vita paragonabile alla Nuova Zelanda o alle Hawaii. Ma pensavo non fino a quel punto.

Dell’isola scoperta nel 1642 dall’esploratore Abel Tasman rimane molto, però. Lui l’aveva ribattezzata col poco pronunciabile nome di “Anthoonij van Diemenslandt“, per riconoscenza al finanziatore della spedizione, Anthony van Diemen, governatore delle Indie Orientali Olandesi. Gli inglesi ne abbreviarono poi il nome in “Terra di Van Diemen”. Poi fu solo una corsa tra britannici e francesi per accaparrarsi l’isola: Risultato: lo sterminio degli aborigeni. L’ultima loro rappresentante la trovai commemorata su una targa in un giardino di Hobart: ”The last Tasmanian: Truganini (1812-1876)”.

Hobart invece si chiamò così in onore di Lord Hobart, segretario di stato inglese per la guerra e le colonie. Già al tempo del mio viaggio era nota per il suo florido commercio portuale e base come di partenza per spedizioni scientifiche verso l’Antartide. Mi concessi l’immancabile la visita al mercato di strada Salamanca e un approfondimento nell’area rurale circostante, dove la viticoltura era in forte sviluppo.

Su un’auto a nolo visitammo Glenorchy, a solo 7 Km da Hobart, lungo le rive del fiume Dervert: un piccolo centro in stile vittoriano e niente di più. Quindi Clarence, centro nevralgico del commercio di vino. Launceston, la raggiungemmo percorrendo la statale n. 1 che collega il nord e il sud dell’isola. Fu una bella sorpresa. Ci trovammo catapultati tra architetture georgiane e la vita mondana di pub, teatri, cinema, musei.

Qui facemmo anche il nostro fatale incontro col diavoletto per il quale la Tasmania è famosa e che da poco, dicono le cronache del 2021, dopo secoli è “risbarcato” in Australia.

A dire il vero il marsupiale carnivoro che vedemmo allo zoo non è per niente bellino. Tozzo, robusto, con la testa molto sviluppata. Le zampe anteriori sono più lunghe di quelle posteriori. Insomma incontrarlo di notte quando “sorride” non è affatto auspicabile.

Da Devonport, non lontana da Launceston, è il porto di attracco dei traghetti da e per Melbourne. Noi ci capitammo nel fine settimana ed assistemmo al via vai degli australiani proprietari di seconde case in Tasmania. Fuggimmo subito, per non essere travolti dalle auto, camper e bus stracolmi.

Sulla strada del ritorno verso Hobart, percorrendo la A10, costeggiammo il Central St. Clair National Park con l’omonimo lago e l’altro, il Lake King Williams. Il viaggio fu di notte, perchè passammo un sacco di tempo ad ammirare al tramonto quei pazzeschi paesagggi.

Il rompighiaccio sovietico Sibir ci attendeva al molo del porto di Horbart. All’epoca a Mosca comandava ancora Gorbaciov, ma il potere comunista già cominciava a scricchiolare: impensabile altrimenti al noleggio di una nave  russa da parte di un’azienda privata canadese.

L’equipaggio era tutto “born in USSR“, ma di diverse etnie: russi, ucraini, bielorussi, uzbeki ed altri. I ricercatori venivano invece da Canada, Nuova Zelanda, Oanda, Usa. John, quello che ci fece da guida nella base McMurdo sull’isola di Ross, era infatti americano.

La navigazione fu tranquilla. Incrociammo diverse navi cargo fino ad avvistare le Isole Macquarie, ancora lontane dalla meta. Ci fermammo per alcune ore e con gli zodiac di bordo, scendemmo a terra visitando colonie di pinguini reali, pinguini Gentoo e pinguini australiani, con elefanti marini e diverse specie di foche.

La meta successiva furono le Balleny, conosciuteperché sempre  spazzate dal vento. Un gruppo di isole disabitate di origine vulcanica con un gran numero di ghiacciai. Le costeggiamo dal lato riparato. Le ricordo grandi, anzi enormi, gigantesche. Le lasciammo a babordo puntando verso l’Arcipelago di Ross e McMurdo.

John si dilungò a raccontarci del Monte Erebus, del Monte Terror e del Monte Byrd, così come di molti altri luoghi famosi che avevano giocato un ruolo importante nelle spedizioni britanniche del XIX secolo. Grazie alle sue amicizie alla base, con un elicottero visitammo anche Taylor Valley, uno dei luoghi che più assomigliano alle condizioni naturali su Marte e sono usate spesso per esperimenti scientifici di sopravvivenza.

Giunse quindi il momento tanto atteso: vedere dal vivo l’immensa pinguineria di Imperatori. Non fu impresa facile, sono animali poco socievoli, che difendono il loro habitat e avvertono tutto ciò che è estraneo come un nemico.

Trascorremmo una notte “solare”, a distanza e contro vento per evitare di far capire la nostra presenza, osservando tutti i loro comportamenti “notturni” e all’alba (si fa per dire), quando il sole riprende a salire all’orizzonte, con l’inizio di un nuovo lungo giorno. Il maschio che tiene il piccolo e la femmina che si incammina verso il mare a cacciare (un adulto mangia da 2 a 3 kg di cibo al giorno), mentre i predatori sono pronti sia in mare che in terra.

Li lasciammo a malincuore volgendo la prua a nord per una tappa non prevista nella Baia Terra Nuova, presso la stazione italiana Mario Zucchelli. I connazionali ci fecero grandi feste. Più grandi ancora quando riportai le notizie sul nostro campionato di Calcio e la quasi certa vittoria del Napoli di Maradona.

Poi l’avventura finì. Ma un pinguino imperatore di pelouche a grandezza naturale mi fece compagnia per tutto il lungo volo di ritorno.