Fa rumore la condanna di 150mila euro dell’AGcom a Forbes per aver fatto pubblicità occulta. Sacrosanto, ma non diventi la pecetta sotto cui nascondere i mali cronici dell’informazione e del nostro giornalismo.

 

Mi dispiace, anzi mi dispiace moltissimo, che in questo tritatacarne sia finito un collega e un amico che conosco da decenni. E che, a onor del vero, da decenni avevo messo in guardia sulla deriva pericolosa sulla quale si era a poco a poco adagiato, avvisandolo che prima o poi il sistema sarebbe venuto giù, travolgendo chi c’era sopra.

Ed ora il rischio è che – essendosi i più furbi affrettati, o apprestandosi essi a scendere surrettiziamente e più o meno ambiguamente dal carro, come i topi dalla nave che affonda – a rimanere sotto le macerie, facendo da capro espiatorio di una colpa collettiva, sia lui: il mio amico e pochi altri.

Mi riferisco, l’avrete capito, al rigurgito giudiziario dello scandalo esploso l’anno scorso per le marchette camuffate da recensioni sulla Guida dei Ristoranti della rivista Forbes. Recensioni che, si è scoperto, erano in gran parte acquistate come spazio pubblicitario, ma pubblicate come articolo giornalistico.

E’ di questi giorni la notizia, esplosa fatalmente in rete con nomi e cognomi, che l’AGcom, il Garante per la concorrenza, ha condannato l’editore del periodico alla salata multa di 150mila euro (qui) per pubblicità occulta.

Ma non è una bella notizia.

Perchè rischia di fare solo da pecetta, da punizione esemplare e gratificante per il popolino. E che, colpendo uno, metta in ombra tutto il resto del marcio. Un marcio devastante e trasversale, di cui decine e decine di volte – l’ultima, l’altroieri – mi sono occupato su queste pagine (chi vuole consulti il motore di ricerca): la progressiva opacizzazione in chiave commerciale del giornalismo italiano.

E no, non mi riferisco solo al settore della critica enogastronomica, che è forse il più becero, il più evidente e il più facile da accusare, o forse solo il più famoso, ma a tutta l’informazione: dalla politica alla musica, dal turismo alla moda, dall’istruzione alla sanità, dalla finanza all’economia. Tutto il mondo del giornalismo è inquinato dal viscoso virus che induce molti alla compiacenza, al trucchetto. Col refrain “Tanto lo fanno tutti“.

Tutti un tubo. Tanti, no. Me compreso. E sono abbastanza stufo di queste sputtanature.

Difficile capire, certo, se il male parta dalla coda, ossia da colleghi senza scrupoli, più o meno necessitati, oppure dalla testa, cioè dall’Ordine, che non solo non controlla e non sanziona (o non sanziona abbastanza), ma non forma, non filtra e nemmeno difende la categoria, mettendola in grado di preservare la propria dignità attraverso il giusto equilibrio tra prestigio e reddito, tra doveri rigorosi e guadagni tali da allontanare le tentazioni. Le quali ci saranno sempre, per carità. Ma ci sono circostanze in cui dire di no è meno facile. Perchè il giornalismo italiano è una pletorica Armata Brancaleone ove ormai ci sta di tutto, dai fenomeni (pochi) ai ciarlatani (tanti), passando da un ventre molle di professionisti deboli, disillusi, inconsapevoli del loro ruolo e spesso smarriti.

E anche su questo punto, (ri)facciamo chiarezza: il sistema delle marchette, della corruttela e della compiacenza è tutt’altro che grezzo e brutale come la gente lo immagina. Non c’è quasi mai un corruttore con i soldi nella busta e un corrotto con la barba finta che li prende, come nei film di Totò.

E’ tutto più smorzato, raffinato, obliquo. Ci sono tanti step, che spesso transitano dalle gerarchie delle redazioni, da taciti scambi merce, da contiguità ambigue, da prassi consolidate e accettate con complicità o rassegnazione, da intese a lunga gittata, da occhi chiusi, da orecchie che non sentono. Un tutto che si autoalimenta e ha condotto la credibilità dell’informazione a un livello tanto basso che, nell’ormai assoluta confusione dei ruoli, ormai i corruttori o gli “agevolatori pubblicitari” non fanno nemmeno tanta differenza tra giornalisti e non giornalisti. La differenza è tra quelli “che scrivono e che non scrivono” e, tra i primi, tra quelli abbordabili e meno abbordabili attraverso inviti, gratuità, agevolazioni, incarichi, consulenze. Così sembra normale che un giornalista che si occupa di cibo faccia pubblicità più o meno occulta a un ristorante, o uno che si occupa di politica faccia campagna elettorale per un politico, o che il cronista in consiglio comunale sia anche l’addetto stampa del sindaco. Sembra normale non solo alla gente comune, ma perfino ai giornalisti e all’organo che li rappresenta, l’Ordine.  In un lassismo da anni progressivo, stucchevole, complice, i cui fustigatori vengono tacciati di rompicoglionismo, di bastiancontrarismo, di ricerca di visibilità e di non sapere ciò che “sanno tutti come va“.

Del resto, se nemmeno è più chiaro il confine tra chi è giornalista e chi non lo è, ma fa come se lo fosse e viene lasciato agire impunemente, di che stiamo parlando?

E quindi, ora che l’AGcom ha condannato l’editore di Forbes, succederà davvero qualcosa? Qualcuno pagherà a livello disciplinare? Ci sarà una stretta deontologica? Si aprirà una caccia alle streghe?

Da un certo punto di vista, me l’auguro. Ma temo che sia tardi.

Io me le ricordo bene, quando il caso saltò fuori, le epurazioni posticce e le facce biance e smarrite dei millemila mariuoli perfettamente consapevoli che avrebbe potuto succedere a loro, impegnati in tortuosi distinguo e in frenetiche sbianchettature. E questi ora che faranno? Si uniranno alla lapidazione o esiteranno a scagliare la pietra? L’Odg potrà continuare a fare finta di nulla e a trattare certe evidenze spiacevoli come semplici pecore nere, casi isolati da curare con discrezione?

La mia diagnosi, purtroppo, la conoscete: noi giornalisti, come categoria, ci siamo suicidati proprio grazie alla cronica mancanza di volontà di mantenere, attraverso il rigore, il prestigio e l’autorevolezza. Attraverso la moltiplicazione degli iscritti senza la minima cura nè di alimentare il mercato del lavoro per assorbirli, nè di limitarne la crescita per evitare la sovrappopolazione. E il mantenimento di un sindacato da operetta che, attaccato al potere qual patella allo scoglio, opera come se il 75% degli iscritti all’albo non esistesse.

Ora ci troviamo con decine di migliaia di esuberi e di colleghi senza alcuna tutela nè sindacale, nè contrattuale.

E poi ci si meraviglia se, per campare, qualcuno fa le marchette?

Ma basta con l’ipocrisia: la marchetta è diventata il reddito di cittadinanza di tanti giornalisti.

Quindi o si abolisce il primo, o si aboliscono i secondi, o ridiamo loro un ruolo e una funzione tutelata.

 

PS: sia chiaro, le marchette non le fa solo chi stenta a mettere insieme il pranzo con la cena, come si vorrebbe far credere, ma anche altostipendiati, plurireddituati e moralisti da tastiera.