di URANO CUPISTI
Dopo un funambolico viaggio di andata, la visita a San Francisco e la Bay Area, eccomi a Los Angeles, San Diego, Las Vegas e l’Arizona, tra pizze con gli spaghetti sopra, slot machine e avventurieri di contorno.
Che arrivare in California nel 1977 volando con l’Aeroflot al contrario, ossia verso Oriente – via Monaco di Baviera, Mosca, cambio di aereo per Pechino via Novosibirski (Siberia), Ulan Bator (Mongolia), altro cambio di aereo e di compagnia per Hong Kong con scali a Tokio e Honolulu per un quasi un giro del mondo in cinque giorni senza mai uscire dagli aeroporti, anche perchè non avevo alcun visto – fu un’avventura, l’ho già raccontato qui.
E ho già raccontato qui della prima parte del viaggio, da San Francisco alle porte di Los Angeles.
Ora tocca alla seconda parte, quella da Los Angeles a San Diego e il confine messicano.
Già a quei tempi la città degli angeli era caotica, una città senza senso e senza storia, salvo quella legata al business del cinema e della televisione, con glamour di Hollywood, i grandi studi cinematografici dai nomi altosonanti (Universal Studio, Warner Bros…), il Chinese Theatre e la Walk of Fame. Senza considerare Disneyland ovviamente.
Ricordo bene la West side, dove ho pedalato per una intera giornata nella speranza di non incontrare attori, attrici e attricette pronte a farsi fotografare. In bici sulla spiaggia respirai l’aria del Pacifico ed ebbi la visione migliore di Santa Monica. Rimasi tre giorni, per poi fuggire in autobus verso sud: San Diego mi aspettava.
E lì immaginavo di trovare spiagge paradisiache, una storia intrigante ed un paesaggio da togliere il fiato.
Prima missione spagnola in terra americana (il nome la dice tutta), dal 1848 appartiene agli Stati Uniti e la sua baia ospita il quartier generale principale della flotta statunitense.
Mi feci subito risucchiare dalla downtown: Gaslamp Quarter, con le case ottocentesche, la Cortez Hill, in cui l’architettura marcatamente vittoriana si sposa in qualche modo alla perfezione con gli imponenti grattacieli. E della verace Little Italy ne vogliamo parlare? L’unica negli Stati Uniti dove mi sono realmente sentito a casa, ascoltando il parlottare lo slang italo-ispano-americano e entrando in contatto con famiglie italiane orgogliose delle loro origini. Poi c’era Balboa Park, considerato il più grande parco urbano degli Stati Uniti, i tanti spazi pubblici dedicati allo svago e al tempo libero, i centri culturali, i musei, i teatri e, naturalmente, il già famoso zoo di San Diego.
Capitolo spiagge: se mi ero emozionato a Santa Monica, che dire dei cento chilometri di costa con arenili, calette, grotte? Da saccopelista, lavandomi con l’acqua dell’Oceano per due giorni, ne visitai parecchie, incontrando anche i fanatici surfisti a Carlsbad State Beach, Black’s Beach o Windansea Beach. E nella Jolla ho mangiato i migliori tacos, altro che i messicani!
Ma il programma trascritto sul mio moleskin prevedeva anche una tappa a Las Vegas, ovviamente per assaporare il brivido del gioco.
Per raggiungerla optai per il tragitto percorso da un bus magico e affidabile: Greyhound, che in sette ore, percorrendo strade impensabili, mi scaricò alle 14.30, in una città letteralmente dormiente. Poche auto circolanti, nessuno per la strada. Avevo una fame di quelle che attanagliano lo stomaco. Nella traversa del famoso Golden Nugget trovai una pizzeria italiana gestita da marocchini. Riuscii a farmi capire. Mi portarono una pizza tipo napoletana con capperi , acciughe con un’abbondante porzione di spaghetti stracotti sopra, clorati col pomodoro. Visto l’appetito, alla fine gli feci pure i complimenti.
Raggiunsi un piccolo hotel consigliatomi dall’autista del bus. Erano le 16. “Do not disturb” appesi da tutte le parti, non solo alle porte delle camere. Las Vegas dormiva profondamente. Poi, alle 18, si accese la miccia: fuochi pirotecnici annunciarono l’inizio di una nuova notte all’insegna dello spettacolo e del gioco. La città inventata nel bel mezzo del deserto del Nevada riprendeva vita e migliaia di formichine umane uscivano dalle loro camere, pronte a riversare fiumi di dollari nelle casse dei grandi hotel, con la musica serale diun’orchestra che suonava un unico spartito: quello dei trilli delle slot machine. Che spettacolo!
Decisi di cambiare 20 dollari e riuscii a giocare tutta la notte. Alle sei del mattino mi accorsi che i venti dollari erano andati. Mentre raggiungevo la mia stanzetta mi dissi: ho pagato un biglietto per assistere ad un magico show.
Il giorno dopo ero in fila in un piccolo aeroporto alla periferia di Las Vegas direzione Grand Canyon, in Arizona. Ricordo lo scenario visto e rivisto in tanti film western. Quell’immensa gola scavata dal fiume Colorado lunga 500 chilometri, strati di roccia rossa che testimoniano una storia geologica di milioni di anni e che concorre alla creazione di uno spettacolo naturale davvero unico al mondo.
Nel preparare il viaggio avevo letto da qualche parte che spesso si resta delusi, se non si affronta la scoperta tenendo presente alcune necessarie linee guida: tipo cosa visitare e il tempo a disposizione. Avendo solo due giorni, decisi di dedicarli a Toroweap Point. Ed ho fatto la scelta giusta.
“Toroweap Point, conosciuto anche come Toroweap Overlook o più semplicemente Tuweep – trovai scritto – è un punto panoramico spettacolare, da cui si può ammirare da posizione ravvicinata il canyon e una serie di coni di cenere vulcanica e colate laviche. Si tratta di un picco a strapiombo alto 880 metri sopra il fiume Colorado, ed è da qui che vengono scattate le fotografie più belle del Grand Canyon. Il Toroweap Point, differentemente dagli affacci più comuni del South Rim e del North Rim, permette di godere del Grand Canyon per quello che effettivamente è, un abisso profondo e vertiginoso scavato dall’attività di erosione del Colorado River”.
Raggiungerlo non fu semplice. Arrivato a Colorado City cominciai a chiedere se ci fosse stato qualcuno interessato a raggiungere Toroweap Point. Trovai una coppia di belgi e una di olandesi. Cinque avventurieri nel mondo. Allora non esistevano viaggi organizzati. Trovammo un ragazzo, proprietario di una 4×4, che si offrì, dietro lauto compenso, a traghettarci a Toroweap Point. Non solo. Un’altra 4×4 con altri avventurieri si unì a noi. Oggi potremme battezzare quella spedizione “Overland de no’ antri“, tra fango, buche, improvvise piogge che resero la strada, meglio chiamarla pista, al limite della percorribilità. Dormimmo in tenda in una radura che poi, in tempi recenti, ho letto che i tour organizzati utilizzano come campeggio.
Ma ne valse la pena.
Peccato sia durato poco: a San Francisco già mi aspettava l’aereo per il ritorno.