di FEDERICO FORMIGNANI
Gli affuenti del Po costituiscono non solo una sorta di reticolo idrografico, ma un vero labirinto etimologico. Ecco un breve vademecum tra radici indouropee, antico tedesco, echi celtici e dialetti vari.
“…Chi potrà della gemina Dora, / della Bormida al Tànaro sposa, / del Ticino e dell’Orba selvosa / scerner l’onde confuse nel Po”. Vivesse oggi, Manzoni avrebbe qualche difficoltà in meno a “scerner” la provenienza dei vari apporti fluviali (colori, odori, vapori) che si gettano nel grande fiume.
Acque buone e meno buone, il Po rimane il protagonista di quest’area geografica d’Italia, così vasta e così importante. Nel suo scivolare dalle Alpi all’Adriatico, fra paesaggi genti e dialetti differenti e antichi, coagula affluenti e piccole storie di nomi: il suo, anzitutto. Ai tempi di Plinio il tratto a monte si chiamava Bodincus, poi divenuto Padus e per esiti successivi, sotto l’influenza dei dialetti delle pianure lombarde e venete, si è trasformato in Pad(d)o, quindi in Po. Senza dimenticare il mitico nome di Eridano, una costellazione dell’emisfero meridionale rappresentata a forma di fiume. Eridano, vocabolo che Boccaccio usa nel XIV secolo e indicava, oltre al Po, anche il Rodano e il Don.
Il maggior fiume italiano, lungo i suoi 652 chilometri, raccoglie una gran massa di acque dagli affluenti alpini e da quelli appenninici. Alcuni hanno nomi dall’etimologia storica e altri semplicemente curiosa.
La Bormida si collega a una base indoeuropea (gwhormo) che significava “caldo”: le acque termali di Acqui lo testimoniano. Il Tànaro, al pari dell’emiliano Taro, si rifà anch’esso alla radice indoeuropea ten, che indicava il risuonare, il tuonare impetuoso delle acque nella loro corsa a valle. Dopo il Tànaro, il torrente Stàffora, che arrtiva dal monte Pénice: il nome proviene dall’antico basso tedesco Stapel (magazzino) a indicare forse un deposito lungo la via per il mare.
Il linguista Gerhard Rohlfs ha poi stabilito un collegamento nobile per il fiume emiliano Trebbia: sarebbe una variante della base Drava (altro fiume famoso), dalla voce drovos (corso d’acqua). Decisamente interessante è il nome del Panàro, fiume della bassa modenese. Collegato alla voce dialettale panréz (patereccio) e al verbo apanàr (offuscare, marcire), dato che in modenese suona panèra, appare giustificato l’accostamento a panaria (madia).
Passiamo ai fiumi di sinistra.
Le due Dore (Riparia e Baltea) vantano nobili origini preindoeuropee.
Infatti la voce dura, duria (corso d’acqua) si è diffusa nelle aree celtiche; basti pensare all’iberico Duero, Douro; al francese Dour. Interessante è il nome del torrente Orco: fiume che non spaventa i bambini ma che in compenso è famoso sin dall’antichità per l’oro che le sabbie delle sue acque trasportavano, tant’è che a Soana lo chiamano éva d’or (acqua d’oro). Il nome del torrente Cervo, che sino a pochi anni fa ospitava le tartarughe, proviene dalla radice celtica sar, col valore di “muoversi, scorrere” (delle acque), ed è parente del tedesco Saar. Ed eccoci al Sesia. Nel medioevo è detto Siccida, nel 1164 Sesia; termine che ricorda “siccità”, quindi decorso irregolare. Tale origine è comune anche per altri fiumi della zona: Sessera, Sizzone e Secchia in Emilia.
Mancano, in questo articolo, i tre grandi affluenti del Po (Ticino, Adda e Mincio) sui quali occorrerà ritornare per scoprirne origini dei nomi e curiosità.
Si può concludere questa gita fluviale ricordando le parole del poeta piacentino Valente Faustini, autore anche di un prezioso dizionario piacentino-italiano: “…al noss Po tütt piìn da spüm, al papä di nostar fiümm” (il nostro Po, tutto pieno di spume, il papà dei nostri fiumi). Niente di più vero.