Un libro di Carlo Macchi sul 50° della cantina chiantigiana scoperchia con levità il vaso di Pandora dei ricordi di chi quegli anni li ha vissuti ed aiuta a comprendere il Gallo Nero come lo conosciamo oggi.

 

Il rischio dei libri celebrativi è di risultare autocelebrativi. Insomma molto gratificanti per chi li fa realizzare, ma inutili.

E il collega Carlo Macchi ha appena pubblicato per Slow Food un libro su Riecine (“Riecine, 50 anni di storia chiantigiana“, 208 pagine, 50 euro), piccola ed eppure storica azienda in quel di Gaiole in Chianti. Trattasi di volume celebrativo, ergo inutile?

No!

Si inizi il dibattito.

Non è inutile innanzitutto perchè, dopo due mesi, risulta già esaurito e in ristampa. Per quanto bassa possa essere stata la tiratura e vasta l’omaggiatura, se in libreria un libro del genere vende in qualche settimana un migliaio di copie (senza costare poco) evidentemente ha un suo appeal.

Non è inutile poi perchè, partendo dalla necessità di ripercorrere la storia dell’azienda, ripercorre in realtà a volo d’uccello, ma nemmeno troppo, quella dell’ultimo mezzo secolo, anzi diciamo pure di quasi un secolo, del territorio del Gallo Nero. E lo fa attraverso voci, documenti, testimonianze dirette utilissime a chi, per sue fortunate ragioni anagrafiche, conosce il Chianti Classico di oggi, ma non quello di ieri e dell’altro ieri, che erano parecchio diversi.

E non è inutile perchè la parte celebrativa non è esondante rispetto ai contenuti, diluita al punto da diventare quasi understatement.

In questo l’aneddotica aiuta e, grazie a una scrittura narrativa, mai seriosa nè sciatta, si traduce spesso in uno snocciolamento di spigolature a volte illuminanti e a volte esilaranti, alimentate dalla voce fuori campo di enologi, cantinieri, giornalisti, tecnici transitati da Riecine nell’arco di cinque decenni che però, nei racconti, non di rado paiono cinque secoli. “Sin dalla fine degli anni ’60 – racconta Nanni Montorselli, dal 1968 al 2005 colonna del Consorzio del Chianti Classico – quando andavamo nelle aziende a fare i controlli eravamo obbligati a vestirci con giacca e cravatta, perchè se il titolare ci invitava a pranzo non era consono indossare jeans, maglioni o roba del genere. Però molte cantine avevano ancora i pavimenti in terra battuta e botti molto vecchie. Per spillare il vino non c’erano valvole ma buchi o beccucci coperti di pece: dovevamo infilare un punteruolo nella pece che chiudeva il foro, far uscire il vino, spillarlo e richiudere con altra pece. Eseguendo queste manovre era facile macchiarci gli abiti, per cui il Consorzio ci riconosceva 25mila lire al mese come indennità di vestiario“.

Storie da piccolo mondo antico.

Difetti? Nulla ne è immune e anche questo libro non fa eccezione.

Quello che più di tutti mi è balzato agli occhi è che le decine di belle fotografie e illustrazioni che corredano l’impaginato (a proposito: bella pure la carta pesante e sontuosa la cartonatura della copertina, diciamolo) non hanno la didascalia. Cosicchè, per capire quale ne sia il soggetto, occorre leggere il libro, che in verità nel testo puntualmente richiama le foto.

Il che significa che non è solo un volume da sfogliare. E ciò non è un difetto.