Luci e ombre alla presentazione delle annate 2010 e 2009 riserva del “più alto dei Chianti”: bella location e ottima organizzazione, ma che fine hanno fatto l’eleganza e la finezza che dovrebbero essere la carta di identità del territorio? Morale: vini un po’ magri e venati di individualismo. Meno male che il Sangiovese…

Non posso tacere del doppio stato d’animo che mi ha accompagnato uscendo, venerdì e sabato scorso, dalle degustazioni allestite nel fiorentino palazzo Borghese (voto nove alla location, voto otto all’organizzazione) di Firenze dal consorzio del Chianti Rufina. Una denominazione piccola (12.500 ettari), raccolta (una ventina di aziende appena), con tanti produttori che conosco personalmente e che considero persone serissime.
Il sollievo veniva dal fatto che, sebbene con qualche eccezione, anche in una docg che lascia la porta pericolosamente aperta (fino al 20%) a varietà diverse, il sangiovese aveva confermata la sua consolante centralità, fungendo da piacevole filo conduttore nonostante alcune evidenti difficoltà di maturazione legate all’altitudine e all’andamento climatico.
Lo sconcerto è stato dettato viceversa non tanto dalla qualità intrinseca dei singoli vini, per la verità non sempre eccellente, ma dal fatto che un’area così particolare, connotata da una forte omogeneità territoriale e da caratteristiche altimetriche (“il più alto dei Chianti”, dice non a caso lo slogan) tali da essere in grado di dare al vino una notevole impronta comune, uscisse dalla kermesse con un quadro generale molto frammentario e con un’identità collettiva (voto cinque) che, onestamente, non è stato facile rintracciare.
Sia nei tredici campioni della difficile annata 2010, sia nei sedici della riserva 2009, sia anche nei sei Rufina riserva 2008 scelti il giorno dell’apertura per un’interessantissima “parallela” (voto otto) con altrettanti Pinot nero dell’Ontario, ho riscontrato infatti una frequente difformità di stile e di indirizzo, attenuata – paradossalmente – da una sola circostanza unificante: quella che ogni etichetta pare seguire logiche proprie. E che tutte tendano poi a ottenere compatte il risultato di spogliare il prodotto finale dalle caratteristiche di leggerezza, freschezza, acidità, finezza che dovrebbero essere sue. Vini insomma che sembrano figli più dell’enologo che del territorio, talvolta un po’ “antichi”, con un uso spesso eccessivo del legno e l’inseguimento di mercati forse lontani, ma certamente distanti anche dal giusto corrente del consumatore evoluto.
Tanto premesso, e premesso che un semestre di vetro (tanto manca all’uscita sul mercato) non potrà che giovare all’equilibrio e all’affinamento, direi molto meglio i 2009 (voto sette) che i 2010 (voto sei meno). Annate molto diverse, si è detto. Decisamente opachi i secondi, velati da una patina di lavoro di cantina e molto magri, ortodossamente migliori i primi, che sovente scarseggiano tuttavia in originalità e in bevibilità.
Una nota a parte la merita, in quest’anteprima, la degustazione parallela di cui si è detto sopra. Un po’ per il suo intrinseco interesse, un po’ perché l’ottima conduzione di Ian D’Agata (voto otto per spigliatezza, competenza e capacità di traduzione all’impronta) l’ha resa un effettivo approfondimento su regioni e produzioni piuttosto inconsuete per i nostri palati, un po’ perché il confronto non competitivo con realtà diverse è sempre motivo di stimolo (e di attrattiva) sia per i produttori che per i giornalisti.
Questo il dettaglio. Rufina 2008 riserva: Castello di Nipozzano, Podere Il Pozzo, Fattoria Il Lago, Fattoria Lavacchio, Azienda agricola Frascole, Castello del Trebbio (2004). Ontario, doc Niagara 2009: Mottiar Beamsville Bench Malivoire, Estate Beamsville Bench Cave Springs Cellars, Gravity Twenty Mile Bench Flat Rock Cellars, Reserve Twenty Mile Bench Flat Rock Cellars, County Prince Edward County Norman Hardie, “L” Ontario Norman Hardie, Estate Beamsville Bench Cave Spring Cellars (2002). Una bella finestra sul mondo, anche se le analogie tra le due denominazioni appaiono francamente remote (e nessuno del resto ha tentato di attestarle).
Quanto alle annate sentite in anteprima, come detto il riassaggio al Vinitaly è d’obbligo. così come la speranza che la Rufina ritrovi lo slancio che gli anni passati avevano fatto presagire.