di LUCIANO PIGNATARO
Brunello di Montalcino Riserva 1998 Biondi Santi: “C’è una nota crepuscolare in questo racconto, forse gli anni passati o la consapevolezza di non poter rivivere certi momenti pionieristici. Ma anche la gioia di averli vissuti e poterli ancora raccontare“.

 

Ed eccoci qui, in riva al mare, quello romantico e intimo di novembre con nuvole e un po’ di pioggia. E poi la grande cucina di Gennaro Esposito: le condizioni ideali per esaltare la generosità di Antonella Amodio che ha serbato questa bottiglia donatale personalmente da Franco Biondi Santi.
Era il 1998 e Montalcino era ormai decollata grazie ad un’abile azione di marketing, la celebrazione delle annate iniziate con la posa delle mattonelle d’autore a iniziare dal 1992, il vino italiano prendeva consapevolezza di se stesso e si scatenavano le prime violente polemiche fra chi aveva introdotto la barrique, i modernisti, e chi continuava a lavorare l’uva tra vasche di cemento e botti grandi di Slavonia, i tradizionalisti.
L’annata 1998 è segnata ufficialmente con quattro stelle, una di meno rispetto alla straordinaria 1997 ma lanciata con eguale entusiasmo anche se Veronelli avvertì di aspettare gli esiti di cantina di una stagione particolare a causa di una prolungata siccità nei mesi di luglio e agosto che portarono ad un anticipo di vendemmia.
La Riserva 1998 fu trattata con i guanti da Franco Biondi Santi, erede della famiglia che aveva creato il Brunello di Montalcino selezionando i cloni adatti di Sangiovese grosso, assolutamente indifferente alle mode del momento: le uve erano quel del Greppo, dalle viti più vecchie piantate negli anni ’70. Tre anni di affinamento in botti di rovere di Slavonia, lungo affinamento in bottiglia e voilà.
Quando si ama il vino certe bottiglie vengono aperte con emozione e rispetto, ciascuno di noi ha conosciuto Franco Biondi Santi rimanendone affascinato, Antonella ci ha addirittura lavorato per un periodo. Impossibile non pensare alla sua mano che tocca questa bottiglia.

Gianni Piezzo, il sommelier di Torre del Saracino, l’apre lentamente ma con mano sicura: il tappo è assolutamente integro e il vino, rosso rubino scarico con riflesso arancione inizia il suo ultimo viaggio nei bicchieri.
Si dice che si beve con il naso, e questa 1998 si presenta in effetti con rimandi di frutta rossa di bosco, note tostate, caffè e nocciola, foglie di ciliegio secche, persino una nota agrumata di arancia e di cenere. Un naso autunnale, è il caso di dire, suggestionati dal tempo che assedia la sala del ristorante. I ricordi delle prime anteprime di Brunello, un mondo completamente diverso da oggi, senza social, senza computer, la nascita di un terroir che ha saputo valorizzarsi come pochi altri in Italia dopo la crisi del metanolo, l’attenzione del mercato americano, i primi incontri e l’entusiasmo di essere protagonisti di una svolta epocale che si poteva toccare con mano e raccontare.
Al palato il vino è integro, avvolgente, maturo, la fusione di tutte le componenti, compreso il legno di rovere, è semplicemente perfetta, la freschezza rivela una vocazione alla longevità quasi eterna, come se avessi aperto una bottiglia troppo giovane. In realtà la mia idea è che era proprio questo il momento per aprirla, non solo per le condizioni organolettiche, ma perché le bottiglie sono sempre aperte al momento giusto quando il contesto è in grado di capirle e di onorarle.

C’è una nota crepuscolare in questo racconto, saranno gli anni che sono passati così velocemente, ma forse la consapevolezza di non riuscire a rivivere a livello istintivo questi momenti pionieristici in cui l’Italia del vino si è fatta conoscere nel mondo non più solo per i fiaschi.
Ma anche la gioia di averli vissuti e di poterli ancora raccontare, così, all’improvviso.

 

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