In Nobèl vince chi fugge? L’appena nobeletato Dylan non si fa trovare e la speranza è che abbia intuito la trappola di un premio che non lo ingrandisce, ma lo assimila, lo metabolizza, lo integra in ciò che egli non rappresenta.
Soundtrack: “You angel you“, NRPS (1974).
Avessi avuto sedici anni, o meglio se fossimo stati nel 1976 (quando avevo 16 anni), avrei esultato per il premio Nobel assegnato a Bob Dylan. All’epoca sarebbe stata una conquista, una dimostrazione, un traguardo.
Oggi, no.
E spiego perchè.
Dylan è senza dubbio un grande artista. Ha percorso oltre mezzo secolo di musica che, piaccia o no, ha influenzato tutto ciò che poteva, ha segnato sogni e epoche. Amo Dylan. Lo amo anche nella sua discontinua continuità. Anche il Dylan meno popolare e acclamato, quello della parentesi mistica di “Saved” e dintorni. Non mi accodo all’agiografia del menestrello, eppure lo amo lo stesso. E’ grande, Zimmy. Di una grandezza intrinseca e sua, che va oltre la poesia, i versi, la musica, il Village, “Blonde on Blonde“. Amo il Dylan di “You angel you“. Lo amo (anche e soprattutto) per la potenza di cui è capace e per la sua capacità di gestirla. Perchè Dylan è Dylan. Lo è senza che sia fino in fondo chiaro cosa, oggi e perfino ieri, significhi essere Bob Dylan.
Eppure trovo questo Nobel zuccheroso, prevedibile, traditore, infingardo e strisciantemente minaccioso. Un’elevazione sì, ma per incorporazione. La consacrazione dell’integrazione. L’ufficializzazione della normalizzazione.
Per carità: niente equivoci.
Nessuna nostalgia nè alibi per la retorica un po’ untuosa dell’eroe-poeta, del paladino del folk, per l’hobo mancato, per il portavoce di una protesta molto presunta e comunque, ai tempi odierni, destinata a suonare datatissima. Superatissima dalla storia e dall’artista medesimo. Il Dylan del 2016 ha poco del Dylan del 1962, forse nulla. In oltre cinquant’anni di carriera un musicista ha il diritto, anzi il dovere di evolversi.
E’ che Bob Dylan non ha, anzi aveva, nessun bisogno del Nobel.
Era già stato nobeletato. Si era nobeletato da solo. E nulla avrebbe comunque potuto togliergli quella sorta di autonoroficenza.
Dylan rappresentava già la consacrazione del rock and roll ad arte e anche la maledetta, sebbene teorica (che però ci bastava) autonomia del rock and roll da accademie e istituzioni. Non si tratta di essere contro, ma di essere fuori.
Con l’attribuzione di questo Nobel le cose finiscono invece per combaciare. Ma in ogni caso la più istituzionale prevale sulla seconda, la assorbe, la illumina della propria luce riducendo a penombra tutto il resto. La sussume, la metabolizza. La ingoia. Alla fine, forse, la digerisce e la espelle perfino. E la natura splendidamente cialtrona e canagliesca del r’n’r ne esce sbattuta e livida, come una caricatura di se stessa, un riflusso, un imborghesimento.
Spingendomi a dare ragione a quel verso degli Who che fino a ieri deridevo: spero di morire prima di diventare vecchio.
Probabilmente suo malgrado, invece, ora col Nobel Dylan si ritrova vecchio senza morire.
Un po’ Lee Van Cleef e un po’ don Diego de la Vega, ma agèe. Come nella foto qui sopra.
Ammetto di non avere una gran considerazione dell’Accademia di Svezia, che già in passato ha dato premi telecomandati come quello a Dario Fo e quello, grottesco, a un Obama appena eletto e quindi artefice di nulla. Il Nobel quindi più razzista della storia sebbene volesse essere il più politicamente corretto.
Adesso, premiandolo e normalizzandolo, si cerca di sancire la correttezza politica della figura di Bob Dylan. Come dire “abbiamo scherzato“.
Spero che sia davvero per questo che lui non si fa trovare.
Ogni altra considerazione è superflua: non si tratta di capire che c’entri Dylan col Nobel, ma il Nobel con Dylan.