Il caso della collaboratrice del Corsera dimessasi per gli scarsi compensi, l’inspiegabile masochismo di molti autonomi e l’evidenza di una professione dilettantizzata sono la prova, tariffe altrui alla mano, di una situazione quasi irrecuperabile.
Col classico frastuono della caduta dal pero, ha fatto di recente rumore il caso della collega Barbara D’Amico che, a buona ragione stufa dei sottopagamenti e dei continui ribassi (pure senza preavviso) dei medesimi, ha pubblicamente deciso di abbandonare la collaborazione col Corriere della Sera.
Mai scelta fu più giusta e mai abbastanza essa potrà in futuro compiacersi della bontà della decisione presa.
Sulla questione si potrebbero peraltro versare ulteriori fiumi d’inchiostro oltre quelli, già copiosissimi, scritti finora (anche dal sottoscritto anche su questo blog: scorrere la sezione “scrivere per mestiere“) senza giungere tuttavia ad alcuna conclusione diversa dalla solita: e cioè che i giornalisti autonomi, ovvero non dipendenti da un’azienda editoriale ma che hanno nel giornalismo l’unica o principale occupazione, sono la sola “categoria” al mondo (metto le virgolette, perchè ho seri dubbi che una comunità di dilettanti/dilettantizzati di fatto, in quanto non producenti reddito, possa essere definita tale) ad accettare di lavorare gratis o quasi (che è la stessa cosa).
Donde il conseguente quesito se lavorare gratis possa dirsi lavoro e se sia ammissibile che un non-lavoro, come il lavoro gratuito, possa dare facoltà di accesso a un ordine professionale, cioè a un ente pubblico che riunisce chi esercita una certa professione (tra i presupposti della quale c’è appunto, oltretutto, la produzione di un reddito).
Ma c’è di più.
Alla luce dei compensi correnti, della tendenza irreversibile al ribasso dei medesimi e dell’assoluta mancanza di prospettive di un qualche miglioramento generale della situazione, i giornalisti autonomi, come l’esperienza quotidiana dimostra, spesso non si limitano a lavorare gratis – e cioè, in sostanza, a coltivare un hobby (il che implica che vivano d’altro, con buona pace della loro terzietà, oppure che qualcuno li mantenga) – e nemmeno a fare beneficenza o volontariato, il che sarebbe economicamente rovinoso ma almeno moralmente nobile, bensì a finanziare chi li sfrutta.
Basta fare due conti: se io regalo a un editore, cioè a un’impresa, più del valore del mio lavoro e l’editore, grazie e solo grazie alla mia liberalità, già da ciò ricava degli utili, significa che io in realtà non mi limito a regalare, bensì ne finanzio proprio l’attività.
Siamo insomma al paradosso che il lavoro giornalistico non è un costo ma, per quanto viene pagato e per quello che produce, addirittura un ricavo.
E questo grazie – scegliete voi la parola – alla generosità, lo slancio, la passione, la dabbenaggine, l’ingenuità, la cecità, il masochismo, il babbo ricco, un altro lavoro serio di chi, del tutto inconsapevole di agire in perdita (cioè peggio che gratis), fa ai giornali il grazioso dono.
Questo senza entrare nelle storiche responsabilità di un sindacato tra l’assenteista e il connivente.
Su questo blog, negli anni, ho fatto numerosi esempi di elementare contabilità giornalistica, nella speranza di dare la sveglia ai tanti colleghi messi in stato di ipnosi dallo specchietto per le allodole del giornalismo e delle sue infide sirene, per indurli appunto a fare due sani conti.
Ci riprovo con un caso recentissimo.
Mi chiama un famoso e prestigioso giornale offrendomi la strabiliante cifra di 400 euro – che probabillmente indurrebbe molti dei citati colleghi a compiere qualsiasi delitto professionale – per seguire un evento a 300 km da casa mia. Tre giorni d’impegno in loco (nota bene: non di otto ma di dieci o dodici ore giornaliere, alla fine) più un altro di verifiche, stesura, etc.
Allora:
- 600 km tra andata e ritorno per 13 km/litro fanno un consumo di benzina di circa 75 euro (per non complicare i calcoli non computo gomme, usura auto, assicurazione, ammortamenti vari, etc);
- autostrada 30 euro
- 25 euro al giorno per tre giorni di panini, caffè e acqua minerale fanno altri 75 euro (per le ragioni di cui sopra non computo spese telefoniche a mio carico, imprevisti, rischi, etc).
- pernottamenti offerti dagli organizzatori, quindi nessun costo da sostenere.
Totale ricavo (400 euro) meno totale spese vive (180 euro) = 220 euro di guadagno lordo. Lordo nel senso che vanno ancora detratti, come minimo, ritenuta d’acconto e inpgi, per un ulteriore importo del 22%. Perciò: 220 – 22% = 171,60 euro di guadagno reale.
Bene. Computiamo ora, mentendo a noi stessi, 8 ore giornaliere di lavoro anzichè le citate 12: per quattro giorni fanno 32 ore, pari a un compenso orario di 5,362 euro e giornaliero di 42,9 euro. Se le ore, come quasi sempre nei fatti sono, fossero 40, il compenso orario scenderebbe a 4,29 euro l’ora. Se fossero, come spesso accade, 48, si cala a 3,575 euro l’ora.
Il tutto occasionalmente, si capisce, senza alcuna continuità, cioè non garantito tutti i giorni dal lunedì al sabato, tutti i mesi, per tutto l’anno, per circa 250 giornate lavorative. Che comunque, alle tariffe orarie dette, darebbero uno stratosferico reddito oscillante tra i 10.724 euro e gli 8.580 euro annui, pari a 894 o 715 o 596 euro mensili.
Ecco spiegata la ragione per la quale ho rifiutato il lavoro e, entro qualche mese, darò probabilmente l’addio a questa non-più-professione.
Seguono, sempre a titolo esemplificativo, i compensi orientativi medi orari di altre categorie di lavori:
- operaio agricolo avventizio: 10,50 euro/ora
- tecnico informatico: 50 euro/ora
- meccanico: 33 euro/ora
- colf: 10 euro/ora
- badante: 7,25 euro/ora (più vitto e alloggio)
- idraulico: 35 euro/ora
- muratore: 27 euro/ora
- elettricista: 30 euro/ora
- ripetizioni scolastiche: 18 euro/ora
- manovale per traslochi: 15 euro/ora
Buon anno…