E’ il gioco che chiunque ha sperimentato almeno una volta, più difficile e meno scontato di come sembra. Ma i criteri quali sono? Eccone un elenco ragionato. E occhio agli abbagli, perchè dall’atollo non si torna indietro…

 

La questione straclassica ma tutt’altro che bazzecolare, come a volte tende ad apparire. Nè banale.

Perchè, se ci si pensa bene, selezionare un certo, ridotto numero di dischi che uno si porterebbe nell’ipotetica isola deserta è tutt’altro che facile. Non tanto e non solo per l’ovvia difficoltà intrinseca della scelta, ma per una serie di altri sottili distinguo che, sempre sull’ipotetica isola, a conti fatti farebbero la differenza.

E dunque: quali sarebbero i requisiti che dovrebbero contrassegnare i – diciamo – dieci dischi da portare con sè per sempre?

Proviamo a sviscerarli uno per uno e a giungere a una conclusione plausibile.

1) LA QUALITA’ ARTISTICA. Grazie, bella forza, si dirà: chiaro che si portino dischi bellissimi. Eppure credo che non basti. Anzi, visto il contesto di isolamento insulare, la pur monumentale qualità strettamente artistica di un album potrebbe rivelarsi perfino un boomerang. Facciamo un esempio: “The end of an ear” di Robert Wyatt è senza dubbio un capolavoro, idem dicasi per il fresco cinquantenne “Trout mask replica” di Captain Beefheart, opere epocali su cui non si discute. Ma siamo sicuri che sarebbero adatti a ripetuti, anzi seriali ascolti nella solitudine esasperata di un atollo? Non c’è l’elevato rischio che risultino depressiogeni e che, quindi, vengano portati e poi ascoltati poco o mai (il che ridurrebbe anche di una percentuale considerevole il volume della musica disponibile, con grave nocumento generale)? Vero che esistono anche titoli fondamentali ma più accessibili, occhio però a non cadere allora nella tipologia 4.

2) I DISCHI DEL CUORE. Sono quelli che, a prescindere (ma anche no) dalla qualità artistica, in qualche modo hanno segnato la tua vita o periodi della stessa. Hanno la stessa funzione, un po’ nostalgica, delle vecchie foto in cui ti piaci, che si guardano con tenerezza e a volte con qualche rimpianto. Sono rassicuranti, consolanti, affidabili. Ma proprio qui sta il problema: con questo tipo di dischi si rischia una continua rievocazione del passato che, su un’isola deserta, forse non è il massimo perchè la situazione ambientale estrema a volte richiede anche scariche di adrenalina inedita, o accessi di gioia, o suoni da (ri)esplorare, insomma musica idonea a stati d’animo mutevoli e anche al semplice, ma non scontato, intrattenimento. Stuzzicare l’inevitabile malinconia e lo stranoto potrebbe essere pericoloso.

3) LA VARIETA’ DEI GENERI. Anche questo pare un criterio scontato: per evitare la noia o la mancanza di musica adatta ai più diversi umori, potrebbe infatti essere consigliata una scelta ragionata “per tipo”, cioè un ampio ventaglio di dischi filtrati come ottimi, se non massimi, esempi delle più diverse categorie classificatorie. Per avere il meglio di un po’ di tutto, ecco. Eppure anche qui si annida l’insidia: mica sempre, infatti, la perfezione formale e filologica di una scelta è sinonimo di emozione, profondità, leggerezza, godibilità, insomma di tutti quegli elementi indispensabili in una selezione ristrettissima e immutabile quale si configura quella da isoletta. L’esagerata conformità al modello potrebbe rivelarsi dunque, alla fine, una gabbia conformista anzichè un volano.

4) I DISCHI “IMPRESCINDIBILI”. E’ criterio di selezione pericolosissimo, direi perfino da evitare, nel quale confluiscono i rischi già illustrati ai punti 1 e 2. La probabilità di scelte scontate e obbligate è infatti elevato almeno quanto quello di ritrovarsi poi con una collezione di album bellissimi, conosciutissimi, ascoltatissimi, recensitissimi, incensatissimi, scontatissimi e quindi noiosissimi. Come certi libri fondamentali letti una volta ma che uno, per puro piacere, non rileggerebbe mai. Così, alla fine, anzichè ad ascoltare la musica ti ritrovi ad ascoltare il suono del mare e a usare le copertine per ripararti dal sole dei tropici. No buono.

5) L’ARTISTA PREFERITO. Soluzione istintiva ma solo apparentemente giusta: tutto viene a noia, anche “Blonde on Blonde”, se ascoltato in ciclo ininterrotto con “Blood on the tracks”, “Freewheelin'”, “Desire”, “Highway 61 Revisited” eccetera. Così facendo, perfino il più grande fan, sull’isola, finirebbe per odiare Bob Dylan e fare il tiro segno con le noci di cocco sulle cover dei suoi dischi imbullettate sul tronco della palma. La varietà prima di tutto, perchè la vita è lunga, sull’isola il tempo scorre lento e la monotonia può diventare soffocante.

6) I DISCHI “GODIBILI”. Sono quei dischi almeno in apparenza più leggeri di altri, senza essere per questo semplici nè ovvi nè banali, ma freschi, vivaci, quasi estivi, che assicurano sempre un ascolto piacevole e movimentato, direi sereno, perfetto quindi per trascorrere in levità le interminabili giornate passate a guardare il rompersi delle onde sulla sabbia. Una sorta di FM per i tropici. Ma è di solo questo che un amante del rock and roll può vivere? Non credo. A volte ci vogliono anche la scossa, il dolore, la carta vetrata e guai quindi ad avere sul giradischi solo morbidezza e levigata allegria.

7) I DISCHI “CEREBRALI”. Scelta spesso dettata dall’illusione tanto onirica quanto fallace di un’esistenza meditativa, quasi in autoipnosi, frutto di una sindrome mista da “onda su onda” e “Nirvana”. La realtà però potrebbe essere diversa e la cerebralità trasformarsi in falò di neuroni. Una suite elettronica di corrieri cosmici o quattro facciate consecutive di free jazz spinto, rumorismi di mezz’ora o dodecafonicismi no stop rischierebbero, in mancanza di interruzioni e di variazioni, di trasformare l’isolamento in un lento declinare verso la follia, o verso l’apatia, o più semplicemente verso il sonno, magari eterno.

8) I DISCHI “D’EPOCA”. Sono una crasi variabile tra le voci 2, 4 e 5, ma con influenze anche della 1. La differenza sta nel fatto che – frutto dell’esasperazione dell’aspetto anagrafico che spesso inganna gli appassionati, convincendoli che la musica migliore sia quella degli anni in cui erano loro ad essere nelle condizioni di vita migliori (di norma, la gioventù) – si tratta di un criterio tendente ai cronocompartimenti stagni (anni ’60, ’70, ’80, etc.) o comunque a perimetrazioni rigide, perfino ridicole, con tutti i difetti che la rigidità può offrire visto che difficilmente l’arte ha un’agenda e dà retta al calendario per esprimersi.

DUNQUE? Dunque, ammettiamolo, scegliere i dieci dischi da isola deserta è un vero casino. Perchè è una scelta definitiva, per sempre e senza ritorno. Quindi pensateci bene. Io ci penso sul serio da una settimana e buttato, cestinandole poco dopo, almeno una decina di liste.