di URANO CUPISTI
E’ il 1958, ho 12 anni, Modugno ha da poco vinto Sanremo e io, su un guscio a motore di 30 metri, affronto l’Atlantico con mio padre, istruttore dei macchinisti, per raggiungere l’arcipelago a metà strada tra Europa e America. Che esperienza. E che gente.
La MV Terra Alta (MV, Motor Vessel, è un acronimo internazionale che in Italia è traducibile con Moto Nave) ci attendeva nel porto di Lisbona. Nel 1958 quell’imbarco rappresentò per mio padre un modo diverso di navigare. Una parentesi della sua carriera, durata pochi mesi, dove il suo compito era di istruire motoristi.
Il suo nome fu consigliato all’armatore portoghese della MV Terra Alta dall’Alfa Romeo Motori Marini per la professionalità acquisita a seguito di partecipazione a corsi di formazione (quelli che oggi si chiamano stage), programmati ed organizzati dall’industria milanese. E quel 140 cavalli installato sulla Terra Alta mio padre lo conosceva benissimo.
Per me, appena dodicenne, rappresentò un’esperienza diversa: mi sentii lupo di mare e provetto viaggiatore. Mi aspettavano le Isole Azzorre, là in mezzo all’Oceano Atlantico, dove si forma il famoso anticiclone che i meteorologi ci ricordano essere di buon auspicio della “bella stagione”.
Alcuni mesi prima di partire trascorsi molto tempo alla biblioteca comunale cercando notizie sulla mia destinazione. Mi colpì molto il fatto che fosse a metà strada tra il continente americano e l’Europa.
Un’altra cosa interessante fu che certe isole dell’arcipelago nascevano all’improvviso con le eruzione vulcaniche in fondo all’oceano e poi velocemente sparivano, senza lasciar traccia. Un fatto successo anche di recente, come nel 1811 con l’isola battezzata Sabrina.
Fu teatro di aspre contese tra Gran Bretagna e Portogallo, poiché a scoprirla era stato un navigatore inglese. Ma quello che da un conflitto diplomatico si era presto trasformato in una dichiarazione di guerra si esaurì pochi mesi dopo, quando Sabrina scomparve con la stessa velocità con cui era emersa.
Chissà, pensai, che non accada qualcosa di simile anche durante la mia permanenza alle Azzorre.
Se di Lisbona ho solo un vago ricordo – la Torre di Belen, la foce del Tago e, al ritorno, la corsa in taxi tra i vicoli della città vecchia per raggiungere la stazione ferroviaria – della traversata per raggiungere Ponta Delgada, il capoluogo delle Azzorre sull’isola di São Miguel, rammento bene tutto. Sia dell’andata che del ritorno.
L’andata sulla MV Terra Alta fu in effetti una di quelle che non si dimenticano per tutta la vita.
L’oceano, quando è agitato, fa paura a chiunque. Se poi l’affronti con una piccola nave di una trentina di metri, appena di 155 tonellate di stazza, ancora di più. Pure mio padre ne fu particolarmente colpito. Per tranquillizzarmi continuava a dire che, una volta arrivati nell’arcipelago, avremmo trovato il mare calmo. Non fu proprio così, anche perché le distanze tra le isole sono abbastanza notevoli e per raggiungerle devi attraversare una parte di oceano, con tutte le insidie possibili.
Raggiunta Ponta Delgada e fatta la conoscenza del senhor José Serpa Diogo, l’armatore, iniziò il trasporto di passeggeri e merci nelle acque del gruppo centrale delle isole dell’arcipelago. I collegamenti giornalieri erano con Faial, l’isola azzurra, poi Pico, la grigia, São Jorge, la bruna e Terceira, la lilla, che con Graciosa formano il gruppo centrale. E una volta alla settimana con le più lontane Corvo e Santa Cruz.
Mi ero fatto un vero e proprio itinerario personale utilizzando la MV Terra Alta come un taxi tra le isole. Pernottavo e rimanevo qualche giorno su di un’isola familiarizzando con gli abitanti, ospite delle famiglie dei marinai di bordo o dei loro parenti.
Iniziai con São Miguel, l’isola più grande ed anche allora la più popolosa. Fu Il primo impatto con l’arcipelago delle Azzorre.
Ponta Delgada era la “capitale”, dove si percepiva lo status di città importante, con gli uffici governativi e il porto dove transitavano merci da e per Lisbona. Esposta ad un clima prettamente atlantico, con un tempo molto variabile. Non ci fece mai mancare sole, nubi e pioggia che nell’arco della stessa giornata. Del resto era la fine dell’estate e a queste latitudini la variabilità rappresenta la normalità.
Seguii subito il consiglio di un marinaio di bordo e del figlio del senhor José e mi feci accompagnare fino ai laghi vulcanici Sete Cidades e Lagoa do Fogo. Ricordo ancora quelle moltitudini di ortensie blu che costeggiavano la strada. Successive visite alle piantagioni di ananas, frutti che da noi, nel 1958, erano assolutamente introvabili. Seppi anche che le Azzorre erano, e sono rimaste per parecchio tempo, l’unico paese “europeo” produttore di the, che in portoghese di chiama chà. La qualità era ottima. Allora, l’unica azienda presente sull’isola di São Miguel era la piantagioni di tè Gorreana, fondata addirittura nel 1883. Della pianta coltivavano la varietà The nero, ma ne commerciavano quattro tipi: Broken Leaf, Pekoe, Orange Pekoe ed il verde Hysson. La differenza, mi spiegarono, era nelle foglie.
Per avere conferma dell’origine vulcanica dell’isola presi un bus açoréennes e arrivai alla caldera del lago di Furnas dove, oltre alla bellissima Capela de Nossa Senhora das Vitórias, visitai la zona delle fumarole, sorgenti da cui zampillano vapore e acqua calda fangosa. All’ora di pranzo non mi tirai certo indietro al momento di assaggiare il cozido das furnas, piatto tipico dell’arcipelago: uno spezzatino di carne e verdure amalgamati all’interno di una pentola di ghisa, cotto in maniera naturale grazie al calore del sottosuolo. Che spettacolo! Il pentolone viene calato in una buca, coperto di terra e lasciato lì dentro per almeno sei ore.
Faial, l’isola azzurra, si rivelò altrettanto spettacolare. L’anno prima, nel 1957, un’eruzione ne aveva modificato la forma, aggiungendo 2 km quadrati e mezzo di nuova superficie, che chiamata Capelinhos. Emozionatissimo. mi buttai a calpestare quel suolo quasi “vergine”. Rammento anche le passeggiate sul molo di Horta, allora un piccolo villaggio di balenieri, e i numerosi murales che effigiavano le loro epiche imprese. Transitano abitualmente da quelle parti, i cetacei diretti da nord a sud o viceversa, secondo delle stagioni. Ovviamente non mi negai qualche avvistamento, un momento travolgente.
L’isola più sorprendente di tutte fu però Pico, imponente con il suo cono vulcanico di 2351 metri di altezza a predominanza basaltica, da cui viene il nomignolo di isola grigia. Per salire in cima mi ci volle un giorno intero, ma ne valse la pena. Nuvole e sole, chiari e scuri, panorami mozzafiato, isole vicine e lontane, il traffico navale da e per l’America che incrociava poco distante. Un vero e proprio faro per la navigazione. Prima della guerra e nel dopoguerra, per i nostri emigranti avvistare Pico dal mare significava del resto essere a metà strada del viaggio. E non era poco.
Lassù, rimasi seduto a lungo sul bordo del cratere, in solitudine, a pensare.
Ma a Pico c’era anche altro. Ai piedi del vulcano si scorgevano vigneti, allevamenti di bovini, cavalli allo stato brado nei pascoli di torba e i lajidos, enormi campi di lava a ridosso del mare. Come dimenticare la Gruta das Torres, una grotta di 5 km, tutta nella lava. La visitai con Agostinho, il fratello di un marinaio di bordo, che mi ospitò tre giorni a casa sua. Scoprii che lì, nel buio più assoluto, c’è un fungo che per riprodursi impiega centinaia d’anni. Mi spiegarono che illuminarlo con la torcia equivaleva a ucciderlo. Dovetti distruggere per osservare. Non fu un pensiero banale per la mente di un ragazzino.
A São Jorge rimasi un solo giorno, mentre a Terceira mi trattenni per tre. Qui, a Angra do Heroismo, cittadina in stile coloniale portoghese, partecipai alla Tourada, una specie di corrida che si svolge per le strade: il toro è tenuto da 5 mandriani con una lunga corda mentre si batte contro persone comuni che lo provocano.
Corvo e Santa Cruz, le due isole più lontane in direzione ovest, le visitai con mio padre. Sono gli avamposti dell’arcipelago a chi naviga verso est, erano allora collegate con Ponta Delgada una sola volta alla settimana. E il viaggio per raggiungerle non fu proprio rilassante. Navigammo in pieno oceano, con un mare decisamente agitato e un malessere diffuso tra tutti i viaggiatori presenti a bordo.
Al ritorno fu lo stesso e l’attracco al molo di Ponta Delgada fu una vera e propria liberazione.
Mi attendeva il viaggio di rientro a Lisbona, che feci però su un traghetto molto più grande della mia MV Terra Alta. Era uno degli ultimi piroscafi impiegato tra São Miguel e Lisbona.
Trascorsi il distacco rimanendo a lungo appoggiato col mento alla ringhiera di poppa della nave, con lo sguardo proteso sempre più lontano, verso quei colori azzurri che sbiadivano piano piano. Era il momento delle riflessioni. E della nostalgia per l’accoglienza ricevuta dagli azzorrani, gente unica.