di URANO CUPISTI
Seconda puntata del viaggio in un Oriente già tante volte immaginato. Dove alle suggestioni di Khiva e delle fiabe si sovrapponevano i disastri ambientali del socialismo reale.

 

Khiva l’avevo immaginata come poi l’ho visitata: un luogo della nostalgia, dove si arriva per il suo passato intatto, indelebile, tramandato da memorie fascinose. Se Samarcanda e Bukhara sono città imponenti, a Khiva tocca il ruolo della solitaria, fuori dai percorsi turistici, dove l’Oriente è più magico.
La città di oggi si estende in quello che era il deserto dei carovanieri, in quella parte deviata della Via della Seta che volge verso il Mar Caspio o verso la Persia. Murata di fango, ammalia e conquista.
I due giorni passati a Khiva sono stati i più seducenti e abbaglianti del mio viaggio. Soprattutto alle prime luci dell’alba e alle ultime del tramonto, quando ho rivissuto nel mio personale set cinematografico le scene de Le Mille e una Notte con Alì Babà e i 40 Ladroni: il silenzio delle viuzze intorno al Palazzo Tosh-Khovli, già maestosa residenza dei khan, con le sue centosessanta stanze, dove risuona la voce suadente di Shahrazad, figlia del Gran Visir e promessa sposa del re persiano Shahriyar che, dopo aver consumato la prima notte di nozze, uccideva sistematicamente le sue spose. Così lei escogitò un piano: raccontare una storia senza mai arrivare al finale. Notte dopo notte, per ben mille e una notte, evitò così l’attimo del possesso fino a far innamorare di sè il Re e salvarsi la vita. Poi ho immaginato che dalle grate arabescate del palazzo uscissero le note di Rimskij-Korsakov al suono delle quali, con languidezza tutta orientale, la fanciulla danzava a piedi nudi, facendo malisiosamente trasparire il corpo. E prima che fosse giorno mi sono fatto trovare pronto sulla sommità delle mura voltato verso l’Iran, per aspettare Alì Babà che, inseguito dai ladroni, tentava di trovare riparo nella grande porta meridionale.
Questa è stata la mia Khiva, sognata e poi vissuta, anche se a dire il vero quelle mura difendevano una città di mercanti e di ladri provenienti dalla Persia, divenuta famosa in Oriente come piazza principale mercato della tratta delle bianche e degli schiavi.
Ma pur sempre un luogo straordinario e misterioso.
La mia avventura in Uzbekistan doveva però cambiare presto pelle, lasciare fiabe e impattare con l’incubo della realtà, sotto certi aspetti dell’orrore.
Si cominciò svegliandosi e, a bordo di una Jeep, raggiungendo Nukus, città con più di 300.000 abitanti e capoluogo della regione autonoma del Karakalpakstan. Da quelle parti è identificata come capitale della Repubblica Autonoma del Karakalpakstan. Era difficile avere i permessi per raggiungerla anche dopo l’abbandono completo da parte delle truppe sovietiche nel 1991.
Perché raggiungere Nukus? Perché raggiungere quell’area sconsigliata dai più e mettere a rischio la propria incolumità? Solo perché lassù a Nord c’è il cimitero del Lago Aral, il Mar Morto dell’Uzbekistan condiviso, in misura minore, con il Kazakistan.
Nukus dista dal lago circa 450 chilometri. Il viaggio in fuoristrada, attraverso un paesaggio lunare, durò nove ore. Giungemmo a Muynah, oggi città fantasma con le sue fabbriche sovietiche dismesse e abbandonate.
Nel 1960 il Lago Aral era il quarto più grande del mondo e occupava una superficie intorno a circa 70 mila Kmq. In quell’anno la sciagurata decisione delle autorità sovietiche di deviare le acque dei due fiumi immissari, il Sir-Dar’jaq e l’Amu-Dar’ja, per irrigare i campi di cotone, pensando che il lago potesse sopravvivere con fonti proprie.
Oggi si possono ammirare le scelleratezze di quelle decisioni, i villaggi di pescatori abbandonati, i relitti di navi ormai insabbiati e cogliere, negli occhi di chi non ha voluto abbandonare la terra d’origine, lo sgomento, la rassegnazione.
All’essicazione si sono unite la salinità crescente, la fauna ittica ormai ridotta alle sole quattro specie più resistenti), le temperature divenute estreme (-40° in inverno e +45° d’estate) per mancanza della naturale funzione regolatrice delle acque, i forti venti che trasportano sulla poca agricoltura rimasta la contaminazione dei residui tossici dei fertilizzanti e dei defolianti utilizzati nelle piantagioni, il pericolo incombente di Vozrozhdeniye, l’isola che oggi è una penisola, già sede di laboratori per lo sviluppo di armi chimiche e batteriologiche. Una zona ancora off-limits, lasciata all’immaginazione di chi la osserva dalle rive morte del lago.
Speranze? In quello che si è formato, il Piccolo Aral, da qualche anno sono ricomparsi pellicani e cormorani. Minuscoli segnali.

Ma intorno al fuoco della sera, nell’accampamento condiviso con altri occasionali compagni di viaggio, ci raccontavamo il blu di Samarcanda, il marrone di Bukhara e il fango di Khiva intarsiato di turchesi. Meglio sognare con le fiabe che pensare alle acque che non ci sono più.