Max Stefani, ex padre-padrone e fondatore della storica rivista rock “Il Mucchio” (dalla quale è stato, con un certo rumore, recentemente defenestrato), pubblica la sua dissacrante autobiografia. Dove ne ha per tutti. Compreso se stesso.

Certo che Massimo Stefani, detto Max, dev’essere un bel cazzone.
Non l’ho mai conosciuto bene di persona, pur avendolo incontrato un paio di volte. Ma è come se lo conoscessi da sempre, visto che da oltre trentacinque anni seguo le sue avventure di giornalista rock: prima da lettore e poi da collega. Per non dire della familiarità che, dopo una vita passata a comprare, ascoltare, recensire e trasmettere dischi, ho con quell’ambiente variegato, sempre sospeso tra l’alto cenacolo e la bassa portineria (più la seconda del primo, per la verità), che è l’editoria musicale italiana con i suoi annessi e connessi. Giornalisti compresi, appunto.
Fare i conti con se stessi comunque non è mai facile e in questo librone di trecento pagine (Gruppo Editoriale editore, 45 euro), impaginato stile patchwork come una rivista rock (indovinate quale), bisogna riconoscere che lo Stefani non ha clemenza di nessuno, neppure di suo padre. Nè di se stesso. Figuriamoci degli ex compagni di viaggio.
Si autosbeffeggia da par suo, insomma, mettendo in piazza decenni di errori e di abbagli, di guerre e di riappacificazioni, di passioni e di simpatica canaglieria con una disinvoltura che, diciamolo, non è comune rintracciare in quella maledetta categoria dei critici musicali.
Ovvio che, raccontando sessant’anni di vita, dei quali quaranta passati a rincorrere il rock and roll in tutte le sue salse (è stato giornalista e promoter, discografico e editore), il buon Max esponga semplicemente il suo punto di vista. Il che appunto non vuol dire che sia la verità assoluta.
Ma, tranne forse che riguardo agli episodi più recenti e spiacevoli, le cui ferite non sono evidentemente ancora rimarginate (ed anzi la battaglia è in corso), lo fa con un distacco, un’autoironia, un senso del grottesco, una scanzonatura e anche un cinismo assolutamente godibili. Anzi di più.
Chi bazzica il mondo della musica non avrà difficoltà a riconoscere, nella miriade degli aneddoti, le situazioni, le mode, i climi, gli scandali, le firme, i giornali, i concerti e le aggettivazioni ricorrenti che hanno marcato la visione italiana del pop dal 1962 ai giorni nostri. Esilaranti le caricature dei colleghi, illuminanti le descrizioni dei giochini e dei compromessi dietro le quinte, fantastici i retroscena (inclusa la fuga dal palco per diarrea di un noto cantautore canadese).
Divertente e mai nostalgica anche la rievocazione dei settarismi e delle scuole di pensiero che – decennio dopo decennio, testata dopo testata, recensore dopo recensore – orientavano il mercato e, di fatto, l’acquisto dei dischi. Le variegate “alleanze” pubblicitarie coi negozianti, le recensioni fatte un tanto al chilo. I vizi incoffessabili: di tutti e dello stesso Stefani, che non lesina i particolari.
Anche perchè – altro pregio del volume – questo “Wild Thing” si avvale di molti contributi scritti di chi, nella lunga carriera dell’autore, si è spesso scontrato con lui (leggendarie certe sue chiuse recensorie sui primi numeri di “Suono”, nei profondi anni ’70: “…e chi non è d’accordo con noi, 2001 lo colga“) e poi si è evidentemente riconciliato. O anche no. Ma cionostante Max gli ha offerto una tribuna, un cameo per dire la sua ed anche questo, alla fine, è un modo indiretto per parlarsi.
Irriverente il tono, irriverentissima ai limiti del sacrilego la copertina (tipicamente mucchiesca, direi, con Papa Woytila inginocchiato davanti a una Fender), irriverente l’approccio alla materia. Disincantato, fluido, per niente celebrativo. Pieno di sassolini e a volte di macigni tolti dalle scarpe ma lanciati in fondo con delicatezza, quasi distrattamente.
Insomma bisogna ringraziarlo, questo cazzone dello Stefani. Il suo Mucchio è stato una fucina di giornalisti buoni e meno buoni, di tendenze più o meno condivisibili, di scazzi clamorosi e di liti finite in carta bollata. Succede anche questo.
Ma ora che è tornato, alla fine del percorso, alla casa del padre (e cioè a quel “Suono” da cui partì con la leggendaria paginetta “Music box” nel 1972, mi pare), non possiamo che fargli un in bocca al lupo. Anzi, come si diceva ai tempi del primo “Mucchio Selvaggio”: happy trails.