“Desenesizzazione” o “depoliticizzazione”? Dopo sette ore di assemblea, 4 miliardi e 1/2 di aumento di capitale, 20 punti (di cui oltre la metà recuperati oggi) perduti dal titolo in 3 gg, la domanda ancora aleggia su Piazza del Campo.
Decine di grida di dolore.
A volte ingenue, a volte perfide. E l’annuncio della disponibilità ad assecondare perfino “un Palio straordinario per Maometto” purchè, in caso di malaparata, qualche fondo arabo si faccia avanti per salvare la banca della città. Cioè, nel sentimento dei senesi, la città stessa.
Quello che è andato in scena oggi, durante le sette ore di assemblea che il Mps ha convocato a Siena per deliberare l’aumento di capitale da 4,5 miliardi di euro necessario (e si spera sufficiente) a uscire dal pantano dei debiti occulti lasciati in eredità dalla precedente gestione, e saltati fuori a sorpresa dai cassetti un paio di mesi fa, è stato ben di più del primo atto di uno psicodramma di provincia.
O di quello che, a un osservatore esterno, potrebbe apparire tale, dopo la coreografica commistione di numeri, espressioni vernacolari, parolacce, tecnicismi finanziari, accuse, controaccuse e propagande politiche varie che per l’intera giornata ha tenuto inchiodati azionisti, amministratori e giornalisti.
Eppure, se saputi interpretare nel loro significato più profondo, sono proprio gli anacoluti, le sintassi zoppicanti e i discorsi fuori dal seminato usciti dalla bocca dei soci “comuni” la chiave migliore per comprendere appieno non solo lo stato d’animo di una città che ancora non sembra aver colto completamente la portata degli eventi che sta vivendo, ma anche, anzi soprattutto, la natura del liquido amniotico in cui per secoli la più antica banca del mondo ha galleggiato. Assumendo dimensioni ben più ampie di quello che è comunque ancora il terzo gruppo bancario italiano. Ed ergendosi a materializzazione di un modello di orgogliosa “senesità globale” trasformatasi da ultimo, per sinecura o miopia, in una soffocante gabbia politica.
Perchè l’aria che oggi si respirava nell’auditorium del Monte dei Paschi e nei discorsi della gente non era quella ispirata dai sentimenti malevoli, ma in fin dei conti semplici, della condanna di possibili malversazioni, ruberie, incapacità. Bensì del tradimento.
Il tradimento della patria. La pugnalata alle spalle.
Un tradimento tanto doloroso da far scivolare in secondo piano perfino la gravità del danno economico procurato alla comunità, che in pochi anni ha permesso di dissipare, attraverso una serie di operazioni ambigue e sconcertanti, un patrimonio enorme, solido e variegato, accumulato in secoli di oculata saggezza e di probità d’altri tempi.
Se sul tappeto non ci fosse stato tutto ciò, l’assemblea montepaschina odierna avrebbe insomma anche potuto essere liquidata come una parentesi spassosa. Tra derivati “che sono la ciliegina sulla torta di merda preparata da (l’ex presidente di Mps e Abi) Mussari“, certi ex papaveri della banca “che se fossero state ballerine tutti i grilli delle campagne senesi se le sarebbero impipate“, “io che non so scrivere e se ci riesco poi non so leggere“, i “chetati” rivolti dall’oratore di turno ad altri soci che lo contestavano, battibecchi da campanile.
E invece no.
Per la prima volta, forse, i senesi hanno toccato con mano lo spettro della reale perdita della “senesità” del Monte.
Uno spettro che il presidente Profumo e l’ad Viola hanno di recente sventolato più volte: prima tagliando i fondi alle contrade (un taglio irrilevante in termini quantitativi, ma simbolicamente pesantissimo), poi confermando l’abbandono a fine stagione della sponsorizzazione al Siena Calcio e di quella della Mens Sana Basket nel 2014. E dopo ancora sottolineando che, di qui in avanti, Mps resterà sì “senese“, ma in quanto banca “con sede” a Siena. E non in quanto banca “posseduta” dalla città, attraverso le sue istituzioni. Come dire che Montepaschi fisicamente non si muove da qui, ma dal punto di vista del controllo…
Tutto il contrario dell’idea di possesso quasi carnale, identitario, che hanno i senesi verso le loro cose. Forse anacronistico nel mondo dell’economia globale. Ma funzionalissimo invece come leva di pressione emotiva sui cittadini.
E come foglia di fico dietro alla quale nascondere la longa manus della politica.
Perchè nel momento in cui la “senesità” del Monte è garantita per statuto dal fatto che il pacchetto di maggioranza è posseduto da una fondazione bancaria e che la maggioranza del cda di questa è nominata dal comune e dalla provincia, a loro volta gestiti dal medesimo partito, ciò significa che la banca è dei senesi solo in apparenza, mentre in realtà è del partito. Peggio ancora se di un partito egemone. Un partito (o una corrente del medesimo) che, in un delirio di onnipotenza, pensa di poter fare ciò che vuole e di alimentare all’infinito il consenso attraverso i vantaggi diretti e indiretti che, suo tramite, banca e fondazione possono elargire, con sapiente strabismo, ad amici e nemici.
Un’anomalia solare di cui, tranne i diretti interessati, adesso si accorgono tutti, dall’Acri (qui), a Monti (qui), da Grillo (qui) alla stampa nazionale e locale.
Ma su cui pochissimi, a tempo debito, hanno trovato da eccepire.
Ora, quando la via è tracciata dai fatti, Profumo e Viola si proclamano “indipendenti“.
Può darsi che sia vero e non abbiamo motivo di dubitarne.
Ma può anche darsi che sia troppo tardi.