C’è un velo di monotonia che ottunde i nuovi e quasi contemporanei album di due straordinarie (e diversissime) musiciste come Lucinda Williams e June Tabor. Una monotonia che nulla toglie alla bellezza dei dischi e alla grandezza delle carriere. Ma che ferisce, addolora e un po’ delude chi, come me, le ama profondamente da sempre.
C’è una coppia di musiciste, grandi ambedue, che sembrano – e forse sono – antitetiche (non solo geograficamente e stilisticamente parlando). Ma che in realtà hanno più di un punto in comune. La reputazione ineccepibile, ad esempio. Un alone di deferente e generale rispetto critico. Una carriera lunga, sofferta e costellata di capolavori. Una credibilità artistica condivisa e a tutto tondo. Una maturità espressiva assoluta e da tempo raggiunta.
Tutte e due hanno poi pubblicato di recente un nuovo album. Album belli, anzi molto belli. Almeno rispetto agli standard ordinari. I classici dischi che, se fossero firmati da un’esordiente, meriterebbero le canoniche quattro o cinque stelle e il bollino di raccomandazione da parte dell’estasiato recensore.
Ma che forse, ad un ascolto attento e disincantato, non sono dell’abituale livello. Manca loro qualcosa. O c’è qualcosa di troppo. E che all’orecchio sensibile finiscono, sebbene dopo molti sensi di colpa e ripetute titubanze, per apparire per ciò che con ogni probabilità sono: opere formalmente perfette, piene ma proprio per questo un po’ prevedibili, statiche, ferme, senza gli scatti e gli strappi, le lacerazioni, le secrezioni di sempre. Come se un impalpabile ma tenace velo di polvere ne ottundesse i bagliori emotivi o se gli spigoli delle canzoni risultassero appena, ma inesorabilmente limati, incapaci di ferire con la profondità a cui le due autrici ci avevano abituato.
Le musiciste si chiamano Lucinda Williams e June Tabor.
E per la prima volta in tanti anni, a poche settimane di distanza l’una dall’altra, mi hanno dato la sensazione di essere due artiste in stallo. Lo dico con dolore e una punta di smarrimento.
Ci pensavo l’altra sera, ascoltando in macchina i loro nuovi cd: “Blessed” di Lucinda Williams e “Ashore”di June Tabor.
O meglio, prima pensavo ai lontanissimi binari che separano e al tempo stesso appaiano le due. Americana, anzi americanissima la prima. Inglese, anzi pure british la seconda. Cantautrice Lucinda, interprete per antonomasia June. Solidamente legata al cosiddetto rock d’autore una, di profonde radici folk, poi evolutesi nel contemporaneo, l’altra. Con la comune tendenza – intrapresa ognuna seguendo un proprio e autonomo percorso – a confluire in quel vasto filone che si potrebbe definire musica adulta. Quasi letteraria. Figure di culto tutte e due, con seguito tanto largo quanto è sottile lo spazio commerciale che i loro generi e i loro dischi occupano nell’industria culturale.
Ma curva dopo curva, marcia dopo marcia, canzone dopo canzone mi sono accorto che il pensiero che inseguivo, la sensazione che mi perseguitava era un’altra: che cosa rendeva misteriosamente simili quei due cd? Cosa me li faceva apparire così affini, sebbene fossero con ogni evidenza così diversi?
Alla fine, con molta riluttanza, l’ho capito. Era un’aria di raffinata, sfuggente ma incombente, pervasiva (e persuasiva) routine.
Lo so, lo so. E’ ingiusto, è ingeneroso. Me ne vergogno, quasi.
Eppure, alla lunga, certi missaggi di “Blessed” hanno cominciato a infastidirmi (alla consolle c’è’ una vecchia volpe come Bob Clearmountain: mica sarà un caso?), la dinamica di certi timpani ha fatto pizzicare il mio senso di ragno, certi accenni di professionalissima levigatezza del suono e certe perdute scabrosità mi hanno insospettito, messo a disagio. Ho avvertito un’inconfessabile sensazione di monotonia. Si può dirlo della grande Lucinda Williams, l’eroina di “Drunken Angel”, la voce di “Sweet old world”? Si può e si deve. Anche perché il fascino dell’artista di Lake Charles riaffiora tutto nel suono opachissimo e artigianale della versione “domestica” del cd, disponibile nella (consigliatissima) edizione de luxe dell’album.
Si può e si deve dirlo anche a proposito della pur immensa June Tabor, una delle mie predilette di sempre: schiva, riservata chanteuse britannica che in quasi quarant’anni di carriera si è pian piano allontanata (ma con frequenti riflussi) dalle sponde della tradizione degli esordi per approdare, in una serie di dischi tanto cadenzata quanto memorabile, a quella della canzone contemporanea, di cui si è fatta interprete eclettica e sensibilissima. Assecondando così il riscoperto gusto per l’esplorazione di sonorità “altre” e una naturale evoluzione vocale che l’ha condotta, negli anni, a tonalità sempre più profonde, a volte perfino cavernose, quasi autunnali. Ci aveva lasciato nel 2007 con le eteree suggestioni folkie di “Apples” e torna ora con questo “Ashore”, una sorta di concept album dedicato al mare, alle sue inquietudini, alle sue correnti. Canzoni superbe, traditionals e brani d’autore uno accanto all’altro, esecuzioni intense, musiche inappuntabili, tutto splendido, bello, emozionante insomma. Eppure, proprio come il ciclico suono delle onde e della risacca, anche in questo caso mi ha pervaso alla lunga un senso di addolorata noia, di smalto perduto, di vibrazioni mancanti. Come se l’artista si fosse smarrita per il troppo cercare. Arenata su un binario morto, simile a uno wadi pian piano ingoiato dalla sabbia del deserto.
E’ sempre difficile recensire i dischi dei musicisti che si amano. Soprattutto lo è se, per istinto prima ancora che per metodo, si esige di avere l’onestà morale di inquadrare ogni opera nella parabola della carriera di un artista, cercando di cogliere le connessioni, i rigurgiti, le evoluzioni.
Ecco, è proprio questo ciò che mi sembra mancare ai nuovi lavori di June Tabor e Lucinda Williams: la continutità, la tensione, le valenze per legarsi con il prima e con il dopo, gli incastri, le affinità. Sembrano opere magnifiche, ma in preoccupante stallo.
Come sempre, la verità la dirà il tempo.