di BEPPE LO RUSSO
L’Antigastronomo affronta oggi la spinosa questione della tradizione culinaria, che già nell’etimo nasconde qualche ambiguità. E che trova forse la sua ragion d’essere nel tempo di trasmutazione, come nella fisica nucleare…

 

Collocato com’è in un tempo senza tempo, non storico, il termine tradizione porta in sé l’illusione della perpetuità, mentre è da intendersi più correttamente come una trasmissione di usi e di gusti che per realizzarsi ha bisogno necessariamente di un rinnovamento, di un’innovazione; vale a dire di una modificazione operata su un modello riconosciuto di cucina o di preparazione che, in un determinato momento storico, una collettività più o meno grande vive come matriciale, originario, dunque autentico.
Sarebbe tempo di denunciare l’abuso generale che si continua a fare del termine e di fare chiarezza sul suo significato. Va ricordato che l’etimo, dal latino tràdere, vale per trasmettere, consegnare; e seppure l’operazione del trasmettere è finalizzata al conservare, tradizionale non significa affatto il mantenimento di un uso comune, di una consuetudine tal quale – giacché andrebbe sempre riferito ad un determinato momento storico – né tanto meno identifica l’impraticabile riproposizione filologica di una formula cucinaria da tutti condivisa – non si sa bene se per una sorta di idolum tribus – come originale, ovvero come proceduto fino a noi dalle origini.
Sub specie culinae, una preparazione tradizionale è un piatto la cui formula, trasmessa oralmente o per iscritto, viene riproposta, ossia tradotta, trasportata, ai palati e agli stomaci contemporanei dopo le necessarie innovazioni che provano, modificandola, a mantenerne comunque la sua riconoscibilità, l’impianto di base – alcuni l’hanno detta radice del gusto – un’operazione che, stando alla libertà rielaborativa dell’operatore, muovendo da una scolorita memoria del patrimonio sensoriale, organolettico del piatto di riferimento, può approdare anche ad esiti decisamente eversivi; giacché, va ricordato, che non è a caso che i termini tradizione e tradimento condividano la stessa radice.
Se è poi vero che ogni generazione riconosce il passato partendo dal proprio presente e il presente riandando al passato, nell’atto del trasmettere, potenzialmente, è possibile, nella misura e diversità di varianti e modificazioni apportate nell’interpretazione individuale del piatto, arrivare anche a “tradirlo”, assegnandogli una funzione ed un significato diversi.
Quante preparazioni, che sentiamo come eredità di mangiari poveri, sono finiti a figurare come amuse-bouche, stuzzichini sulle tavole borghesi? E quante materie protagoniste di piatti forti sono state “ricollocate”, ritrovandosi come componenti minori di una preparazione moderna?
Aristotele nella sua Poetica (334-330 a.C.) identifica il principio di tutte le arti poetiche nell’imitazione, ma precisa che esse non imitano con gli stessi mezzi, non imitano le stesse cose e non imitano nello stesso modo. In principio è l’imitazione, dunque; com’era nelle botteghe d’arte rinascimentali, dove a lungo, prima di essere riconosciuti, i grandi hanno continuato a disegnare angioli, sfondi e personaggi minori sulle tele e negli affreschi dei maestri. Qui ci viene in soccorso un trattatista barocco, il gesuita Daniello Bartoli, che nel capitolo “Come possa rubarsi dagli scritti altrui con buona coscienza, e con lode”, nel suo “L’uomo di lettere difeso ed emendato” (1645) affermava: “La prima maniera di rubar con lode è imitar con giudizio […]. Sia dunque la seconda maniera di furto non che lecito, ma lodevolissimo, torre da altrui ciò che si vuole, ma del suo migliorarlo sì, che non sia più desso. [L’autore] seppellisca il furto della materia nell’arte del lavorarla; sì che nell’aggiunta che vi fa del suo, affatto si perda quello ch’era d’altrui“.
Ma, alla fine, spesso è soltanto una delle tante innovazioni operate ad essere accolta e a continuare ad essere sentita come tradizionale dalla comunità degli edenti, i soli a decidere della fortuna di ciò che verrà trasmesso. Perché, anche in cucina, per citare Francesco De Gregori, la storia siamo noi. Siamo noi a fare anche la storia di quello che mangiamo.