Il nodo del “giusto compenso” del lavoro giornalistico autonomo è sulla bocca di tutti. Compresi quelli che, non sapendo di cosa parlano o avendo perduto di vista l’obbiettivo, prendono fischi per fiaschi. Con grave danno per tutti, freelance in testa.

Non capisco, proprio non capisco. E poi mi arrabbio. Perché se entro un certo limite gli equivoci e gli abbagli sono tollerabili, oltre non lo sono più. Soprattutto se a prendere fischi per fiaschi sono gli addetti ai lavori. Coloro che, cioè, dovrebbero avere un’idea ben chiara non solo del problema, ma soprattutto della sua complessità. E quindi della necessità di tenerne conto prima di fare ipotesi e prendere posizioni sull’argomento.
Invece, nisba.
Anzi, peggio: fuorviati dai sintomi della patologia, tendono a scambiarli per la malattia e contro di essi si accaniscono a prescrivere la cura, rendendo così cronico, quando non esiziale, il male.
Parliamo, ovviamente, del “giusto compenso” del lavoro giornalistico, tema venuto di gran moda (di attualità lo è sempre stato, anche se i papaveri sindacali avevano finora sempre fatto finta di non accorgersene) dopo il progetto di legge presentato settimane fa in Commissione alla Camera dal deputato Silvano Moffa. E sul quale opinioni e pareri si vanno accavallando.
Tutto bene, tutto giusto. Discutere fa bene.
Ma certe approssimazioni, nella bocca dei colleghi, fanno trasalire. Innanzitutto per gli sconcertanti svarioni di metodo dei quali sono figlie.
Come, ci si chiede infatti, e in base a cosa stabilire i parametri minimi per commisurare questo “giusto compenso”?
Visto che si parla di libera professione e di un mercato finora assolutamente selvaggio, ciò che ci si aspetta è che i solerti indagatori scandaglino innanzitutto il “grande padrone” di tutto, cioè il mercato, appunto. Ovvero si chiedano: quali sono i compensi reali che attualmente il mercato propone? Il che presuppone la risposta a un altro interrogativo: quanti e quali sono le tipologie di lavoro giornalistico a cui i compensi in parola si applicano?
Chi si addentrasse in questo ginepraio scoprirebbe ben presto che i generi e i casi sono tanti: dai compensi a 1 euro ad articolo per il web dagli 8 euro ad articolo per i quotidiani, dai 30 euro di certi periodici ai 2mila e più euro per certi reportage di grande impegno e respiro, passando da una vasta scala di valori intermedi calibrati in funzione dell’argomento, della testata, della difficoltà, del prestigio dell’autore, del tempo e dell’impegno richiesti. Insomma ce n’è “di ogni”. Al termine si potrebbero così tirare le fila e cominciare a buttar giù un elenco analitico di compensi minimi inderogabili tipologia per tipologia, sempre specificando che si tratta – appunto – di minimi inderogabili e che tutto il resto dev’essere demandato alla libera contrattazione tra le parti.
Apro invece il sito dell’assostampa siciliana (qui) e, in sintesi, leggo che i riferimenti “ufficiali” da prendere a parametro per le prestazioni professionali di lavoro giornalistico autonomo sarebbero “il Tariffario dell’Ordine dei giornalisti del 2007 (di cui l’Antitrust chiese la rimozione in applicazione della legge Bersani) e l’accordo Fnsi-Uspi 2010-2012″.
Ovvero quanto di più inattendibile, inadeguato, spesso autolesionisticamente sia applicabile, lontano anni luce dalla realtà nonché privo di valore legale.
“Entrambi i tariffari – specifica il testo – prevedono come compenso più basso l’importo di 25 euro; quello più alto è di 342 euro (salvo maggiorazione del 20% per testi più lunghi di 5 cartelle)”.
Remunerazioni cioè che per gli abusivi camuffati da collaboratori a partita iva forse sarebbero pure una manna e ma che, viceversa, rappresenterebbero la morte professionale di qualsiasi autentico freelance, visto che (come perfino gli attuali, sebbene esanguissimi, compensi “di mercato” comprovano) certi articoli per essere remunerativi necessitano di essere e spesso sono pagati pagati come minimo il doppio di quei 342 euro più l’elemosina del 20%.
Insomma, in questo modo non si va da nessuna parte, proprio perché l’errore è nel manico e non potrà che portare a risultati catastroficamente masochistici.
Ma non basta.
Sul medesimo sito leggo una proposta (“una delle tante” è per fortuna specificato) di “Decalogo per la formulazione e le modalità di applicazione del tariffario dei compensi minimi per i giornalisti lavoratori autonomi – freelance” (sempre qui).
Roba da far rizzare i capelli. Tra le maggiori amenità, quella che “il lavoro autonomo deve costare di più rispetto a quello dipendente (ma perché?, ndr), ciascuna prestazione giornalistica di un lavoratore autonomo deve costare più del compenso di un’ora di lavoro previsto dal contratto nazionale di lavoro (idem, ndr) e nessuna prestazione può essere compensata meno di 25 euro (compenso professionale minimo)”.
Dico, ma gli estensori si rendono conto di quello che scrivono? Si rendono conto che una tale architettura può, al massimo, avere lo scopo e la funzione di disincentivare da parte delle aziende editoriali che pubblicano quotidiani il ricorso ai redattori occulti/falsi freelance e non certo quello di tutelare realmente il lavoro giornalistico autonomo? Sanno, o sono in grado di capire, che per ragioni di “numeri” e di logica la libera professione non può essere esercitata per un solo committente e che il compenso della prestazione non può essere solo legato alla tiratura della testata? Che, al contrario, sono proprio i periodici, per ovvie ragioni di mercato, le pubblicazioni con le tirature più basse? E che, ancora, sono proprio i periodici l’interlocutore privilegiato del freelance, per il quale fissare minimi troppo bassi (così bassi da essere spesso inferiori a quelli correnti) significa un insopportabile abbattimento dei già magri redditi?
La risposta a tutte le domande è, evidentemente, no.
La ragione è che in costoro manca la comprensione profonda della questione relativa al lavoro autonomo. La quale ha una sua ben definita specificità e non consiste affatto nel far emergere il nero (battaglia sacrosanta, ma “altra”) o nel far pagare di più collaboratori che sono tali per necessità, ma in realtà non aspirano ad alcuna “autonomia”.
Ed è l’ennesima dimostrazione del perché l’Fnsi non è il sindacato dei freelance, del perchè non è nè sarà mai in condizioni di diventarlo e del perché, se lo diventasse, finirebbe per esserne l’ultimo carnefice, anziché quel tardivo paladino per il quale oggi cerca di spacciarsi.