Primo passo compiuto: l’ec riguarda ogni forma di giornalismo autonomo, tranne casi minimi. Speriamo che la conquista (ineccepibile per ratio giuridica) adesso non ci venga fatta pagare sul piano del “quanto” e del “come”, vanificando l’intera operazione.

L’annuncio arriva sui social, scricchiolante e solenne come certi sonori di Radio Londra. Lo formula, con una una punta di enfasi politicamente comprensibile, il presidente dell’Ordine Enzo Iacopino. Eccolo:
Ore 10,35 del 29 gennaio 2014, viene abolita in Italia la schiavitù. Con 6 voti su 7 (la FIEG si è astenuta) viene approvata la delibera quadro che stabilisce che gli editori debbono applicare l’equo compenso a TUTTI. Non è finita, lo sappiamo tutti. L’abolizione della schiavitù non fa sparire d’incanto i negrieri. Ma per loro sarà molto più dura negare i diritti a chi lavora. Sarà dura anche per quegli editori che non accedono alle varie forme di finanziamento pubblico. I magistrati hanno, adesso, dei riferimenti molto precisi (c’era, in verità, la Costituzione) e altri verranno entro il 10 marzo con le relative tabelle“.
Ferma la mia distanza dalla metafora degli schiavi e dei negrieri (mai visti, io, gli schiavi volontari, nè dottori che abbiano prescritto ai pazienti di farsi schiavizzare), il risultato è importantissimo: dall’applicazione del principio dell’equo compenso, sancito per legge, non scappa nessuno tranne gli hobbisti puri.
Ottimo.
Ora ricomincia però la battaglia, altrettanto difficile e di portata sostanziale, per la determinazione del “quanto” del compenso minimo medesimo. Se n’è discettato a lungo nei mesi scorsi.
E di nuovo le avvisaglie non sono buonissime.
Le prima affiorano già tra le righe dell’annuncio vittorioso: “…altri [riferimenti per i magistrati, ndr] verranno entro il 10 marzo con le relative tabelle“.
Ahiahi: tabelle? Che tabelle?
L’equo compenso è una soglia unica, minima, inderogabile, uguale per tutti. Mica si vorrà fare di nuovo riferimento al grottesco concetto del tariffario, sciaguratamente partorito durante l’ormai celebre vertice postnatalizio passato alla storia come “riunione del panettone maldigerito” e foriero di infiniti sberleffi, liti e contrasti? Una formula che, già in passato, ha prodotto danni irreparabili alle esigue tasche degli autonomi?
Se così fosse, l’euforia per l’acquisizione dell’idea di un ec valido per tutti si dissolverebbe subito per far posto alla preoccupazione che il pallino – cioè la ciccia, i soldi, il quantum – torni in mano alle camarille del sindacato, agli accordi sottobanco, ai tavoli paralleli, alle strategie contrattuali, alle manovre precongressuali, ai falsi malintesi, alle demagogie di lungo corso e alla cartolarità elettorale. Per non dire in quelle finora abili nella tessitura, ma fin troppo arrendevoli, sul piano del raggio di applicazione della legge, della Fieg.
Entro il 10 marzo, se Legnini non si rimangia quanto ha affermato, una decisione sarà presa. Cioè sarà fissato l’equo compenso.
Che si addivenga alla svelta, per le prestazioni giornalistiche autonome, alla definizione di una soglia minima, la più (sostanzialmente, proprio in termini di potere d’acquisto) alta possibile, è una necessità inderogabile.
Soprattutto dopo che, scelleratamente, giorni fa la scombiccherata maggioranza in Cnog ha affondato l’ipotesi della riforma professionale ad albo unico, perpetuando così le fondamenta del giornalistifico, fonte di ogni male della categoria.
Ora, infatti, solo l’individuazione di un equo compenso quantitativamente elevato potrà da un lato portare al naturale ma rapido ridimensionamento della patologica sovrappopolazione giornalistica e, dall’altro, imponendosi come parametro di riferimento reddituale anche per i consigli dell’Ordine, fungere da soglia concreta tanto per la verifica della congruità dei pagamenti richiesti a dimostrazione dell’attività svolta agli aspiranti pubblicisti, quanto da calibro per l’auspicata (e legalmente obbligatoria) revisione degli albi.
Se così non sarà, adesso è inutile festeggiare.