Siccome devi ammazzare una mezzora di tempo prima di cenare in un ridente ma alquanto spettrale paesello toscano, ti viene la balzana idea di prendere un aperitivo.
Entri nel bar, piuttosto rileccato invero, e commetti il primo sbaglio: non noti che il locale è deserto. O meglio lo noti, ma essendo deserto il paese intero pensi sia una cosa normale. Al banco c’è una ragazzina che, nonostane tu sia l’unico cliente, resta in altre faccende affaccendata e nemmeno si sogna di rivolgerti uno sguardo o un buonasera.
Dopo un attimo di titubanza per il timore di disturbarla, mi azzardo a chiedere due calici di spumante.
Quella interrompe sbrigativamente le faccende, con stile e suoni da saloon western mette due bicchieri sopra al bancone, armeggia sotto, ne trae una bottiglia e, senza mostrarci alcunchè nè profferire verbo, ci mesce due-dita-due di liquido. Dopodichè volta il culo e se ne torna alle precedenti occupazioni.
Non un “prego, accomodatevi” (tutti i tavoli sono liberi, ovviamente), non un “gradite una patatina?”. Nulla di nulla.
Io e il mio amico ci guardiamo, incerti se ridere o protestare.
E’ evidente che sarebbe in ambo i casi inutile: la tizia ci volta le spalle.
Beviamo in fretta, poi mi accingo a pagare.
“Quanto devo?”, chiedo.
Lei si volta, sempre muta, batte in fretta sul registratore di cassa, che sentenzia 8 euro. “Otto euro”, ripete la tizia.
Pago, esco, rifletto: ho pagato otto euro per quattro dita di spumante di qualità modesta (eufemismo) bevute in piedi in un bar deserto di un paesello di provincia deserto.
Poi di che cosa ci si meraviglia