Agricoltori indotti a diventare locandieri, avvocati trasformati in giudici, giornalisti che organizzano “eventi”, medici tramutati in guru. Flessibilità? Creatività? Macchè. Nella colata a picco di mestieri e professioni c’è il sintomo del ritorno alla promiscuità delle competenze come condizione indispensabile di vita. Non mi pare un gran progresso.

Chi si ricorda la canzone di Venditti? “E Giovanni è un ingegnere / ma lavora in una radio / ha bruciato la sua laurea / vive solo di parole…”. E’ davvero una strana Italia questa in cui, per continuare a fare il proprio lavoro, bisogna cambiarlo.
E non parlo di chi, come il Giovanni vendittiano, avendo fatto certi studi, si ritrova da subito a lavorare in un settore completamente diverso. Questo sarebbe quasi normale e comunque plausibile. La società è piena di dottori in legge diventati grandi chef e di ragionieri diventati grandi imprenditori.
No, mi riferisco proprio a chi per cinque, dieci, quindici anni ha lavorato e dignitosamente vissuto in un settore e, per continuare a lavorarci (vivendone), deve di fatto trasformare la propria attività in qualcosa di diverso.
Facciamo alcuni esempi.
Gli agricoltori, ridotti alla fame dal crollo dei redditi agricoli, reclamano di potersi mutare in locandieri e produttori di energia elettrica trasformando le fattorie in alberghi e i campi in distese di pannelli fotovoltaici. Vi pare giusto? In un’ottica di sopravvivenza, certamente sì. Ma in termini logici, no. Se ho scelto di fare il contadino vorrei poter continuare a produrre grano o frutta anzichè diventare commerciante di energia. Gli avvocati, strangolati dalla sovrappopolazione forense (si calcola che nella sola Milano ve ne siano 30mila), ormai si contendono perfino le cause da parafango e ambiscono a integrare i modesti introiti con gli arbitrati: in pratica si trasformano in giudici e tanti saluti alle arringhe.
I medici abbandonano lo stetoscopio e aprono centri benessere, oppure si dedicano a corsi di medicina olistica, con buona pace di Ippocrate. I ragionieri si tramutano in creativi e si lanciano nel mercato dei business plan, parolina magica che significa speranze gabellate per realtà. I geometri gettano alle ortiche autocad e, indossata la cravatta, diventano mediatori d’affari.
E i giornalisti? Peggio che mai. Noi ormai, per campare, ci ricicliamo in tutto: organizzatori di eventi, insegnanti, gestori di b&b, agenti di pubbliche relazioni, ghost writer, pubblicitari.
Ovviamente tutto questo, con grande abbondanza di distinguo e di eufemismi, viene esplicitato con parole alla moda. Come flessibilità, capacità imprenditoriale, adattabilità.
Cose vere, intendiamoci (ricordate la frase magica? “E’ il mercato, bellezza”). Ma a me sembra che spesso il mercato c’entri poco. E sembra invece il sintomo che si è raschiato il fondo del barile. Perché quando un autonomo quarantenne che da quindici anni fa un onesto lavoro è costretto a inventarsene un altro, camuffato però da mestiere originario, significa che qualcosa non quadra. Per un dipendente (che ha pensione, sindacato, ferie pagate, stipendio garantito e tredicesima) è diverso: mutare datore di lavoro o comparto di attività può non essere piacevole, ma le certezze rimangono e il cosiddetto “posto fisso”, oggi, non è più un’idea realistica. A me però non pare un successo se anche l’imprenditore edile, per salvare la ditta, è costretto a diventare pure falegname e a fabbricare i mobili per gli appartamenti che costruisce, l’unica voce sulla quale guadagna qualcosa. Nè mi pare un progresso se l’elettricista, per campare, deve ampliare l’attività estendendola ai lavori di muratura con la scusa che “già che ci sono posso fare tutte e due le cose, meglio e prima”..
Ciò ha le sembianze, casomai, di un enorme calderone di gente in difficoltà, ingabbiata da un (necessario) inquadramento fiscale e amministrativo, che annaspa nella crescente promiscuità delle professionalità e di competenze dettata da un mondo in cui l’acqua, inesorabile, sale. Un mondo dove – questo il messaggio, alla fine – tutti devono tornare imparare a saper fare tutto. E spesso a fingere di saperlo fare. Non ci sarebbe niente di male, se non ci avessimo impiegato secoli per raggiungere l’obbiettivo opposto. E se le competenze in tanti casi non fossero, appunto, puramente virtuali.