Con un misto di miopia e di opportunismo, la categoria dei giornalisti si infiamma denunciando l’attentato a un diritto che, nella mente degli attentatori, è un non senso. E che non era il loro obbiettivo. Basta cantarsela, suonarsela e piangersela addosso.

Ammettiamo che, al netto delle copiosissime ombre che si profilano e che, probabilmente, continueranno a lungo o forse per sempre a proiettarsi sulla vicenda del tragico assalto parigino del 7 gennaio, le cose siano andate come si dice.
E cioè che un commando di estremisti islamici abbia, per vendetta, assaltato la redazione di un giornale particolarmente irriverente, facendo fuori a uno a uno i principali vignettisti e altre svariate persone.
Vi pare questo “un attacco alla libertà di stampa“? Cioè un messaggio intimidatorio mandato al mondo dell’informazione? Un attentato, insomma, che aveva per obbiettivo dei giornalisti?
A leggere certi commenti e i connessi tentativi di strumentalizzazione di una vicenda così drammatica, c’è da trasecolare.
Ma che c’entra la stampa in sè, scusate? Tranne il fatto, del tutto occasionale e secondario, che in questo caso l’obbiettivo dell’assalto sia stata la sede di un giornale? E se fosse stata una casa di moda, rea di aver offeso, con certe reclame, la sensibilità dei musulmani, sarebbe cambiato qualcosa? E se si fosse trattato di una stazione di polizia dove venivano identificate donne a cui era stato tolto, per vederle in viso, il burqa? O di un prete che faceva un’omelia? O di un politico che criticava l’Isis o gli imam?
Voglio dire – e lo dico da giornalista – che, visto il contesto generale e la portata globale della crisi politico-religiosa in atto, la professione delle vittime e la funzione del luogo prescelto per l’attentato sono assolutamente irrilevanti. Lo sono in assoluto e ancor più se osservati con l’occhio degli attentatori (che è quello che conta). I quali volevano colpire l’antislamismo o ciò che a loro sembra tale, in ogni sua espressione. E su cui non stanno, volutamente, per niente a sottilizzare.
Solo la miopia, il provincialismo, l’opportunismo e magari tutte queste cose messe insieme possono spingere qualcuno a credere, propalandolo urbi et orbi, che la strage di mercoledì scorso sia stata contro ciò che noi oggi, con mente laica e linguaggio liberale, chiamiamo “libertà di stampa”. Elemento di un più complesso sistema di libertà e di diritti che attiene a un modello occidentale (il fatto che esso venga adottato in molte parti del mondo non significa nulla, è la radice storico-culturale che conta) di nessun significato per chi ha una concezione teocratica dell’universo.
Quindi, cari colleghi e pelosi apparati di colleghi, per favore, fatela finita di cantarvela, suonarvela e piangervela addosso: come categoria, in quella carneficina c’entriamo solo per caso. Con buona pace di proclami, indignazioni e fiaccolate “professionali”.