Tutto finisce e anche il Pellegrinaggio Artusiano è finito. Ma chi sono stati davvero i miei compagni di viaggio? Ecco una galleria di ritratti…
Leonardo Romanelli. Da ex nazionale juniores di marcia, mette in atto tutti i trucchi del più scafato mestierante. Per quattro giorni succhia la scia degli altri, fingendosi sfinito, ma è solo per risparmiare le forze e poi staccare tutti nello strappo finale. Ideatore e organizzatore dell’impresa, cosa di cui gli va dato eterno merito, dimentica ogni vescica o dolore muscolare alla vista di una telecamera, davanti alla quale ringalluzzisce, inforca l’occhiale catarifrangente e riesce a sciorinare con mimica gassmaniana ricette artusiane e alate iperboli dialettiche. Un po’ profeta e un po’ Lawrence Olivier, tiene insieme il gruppo e riesce a fare pubbliche relazioni anche quando gli altri ormai si appisolano. Ma, al momento dei saluti, trova il coraggio di riconoscere di essere stato lì lì per cedere all’onda dell’emozione durante la prolusione ufficiale al comune di Pontassieve. Chapeau!
Tommaso Chimenti. Giornalista e critico teatrale (nonché, per questo, probabile biografo ufficiale del Romanelli in versione assi del palcoscenico), dietro a una facies da asceta esseno e a un fisico da derviscio rotante (ma senza sottana) nasconde un animo sensibile, rivelandosi raffinato quanto inesauribile cesellatore di versi. Ne ha di aggraziati per ognuno, ad personam, e ne compone in continuazione, sia nella forma di haiku che in quella di più articolati poemi. Con sorprendente facilità improvvisa vergandone estemporaneamente su tovaglioli, bigliettini, menu. Acuto osservatore e ottimo conversatore, viene tradito quasi subito dai talloni feriti ma stoicamente prosegue il cammino, complici le cure del Peroni, senza fare una piega. Alle attività diurne di marcia e di poesia alterna quella notturna di ispirato compositore di arie per trachea e mandibola solista. Il timore è che ci aggiunga le parole per farne un’opera lirica. Appena concluso il pellegrinaggio fugge a New York, ma la sua maratona l’ha già fatta qui.
Stefano Frassineti. Coescogitatore, con il lungocrinito Leonardo, dell’avventura artusiana (anche a lui Dio ne renda merito), dichiara 118 kg di peso da quando, giura, entrando in banca la porta girevole tarata a 120 kg non dà più l’allarme, bloccandogli l’ingresso. Affronta l’intero cammino brandendo un nodoso bastone che, in mano a lui, ha le sembianze di un palo della luce impugnato da Polifemo e renderebbe pusillanime perfino il Passatore. Con la differenza che Stefano di occhi non ne ha uno come il ciclope, ma quattro, visto che porta pure gli occhiali. Cionondimeno stupisce tutti per simpatia, affabilità e contagioso buonumore. Transita tra i primi sulla cima Coppi, poi nel finale viene tradito dal torcicollo. Memorabile l’ultima cena nella sua locanda a Pontassieve, un piccolo gioiello di buon gusto, misura e creatività. Con voce tonante intrattiene anche da lontano i compagni di viaggio. Un pellegrino nato. Indispensabile.
Marco Peroni. Dichiarato ufficialmente l’alternativa maschile a Belèn come testimonial unico di tutti gli operatori di telefonia mobile della nazione, con impressionante abilità scambia da una mano all’altra la bandiera rossa con la quale, in testa al gruppo, avvisa le auto del nostro passaggio e il telefonino con cui, invece, fa tutto il resto: chiama, riceve, fotografa, riprende, registra, tiene il conto di tempi, passi e chilometri, coordina il serpentone, predice il futuro, rassicura la mamma, fa i compiti della sorella, consola le vecchie fidanzate e ne cerca di nuove. E il probabile detentore del brevetto di una batteria atomica per cellulari, visto che la sua non si scarica mai. Portatore della farmacia mobile della compagnia, e perciò solerte dispensatore di cure, bende, cerotti, pasticche e fasciature, ha un cuore sensibile che non sa proprio nascondere: gli si legge in faccia. Acquisisce punti ulteriori quando suo padre si fa trovare in vetta al Muraglione con un vinello fatto in casa che fa resuscitare i morti. Cioè noi.
Marco Sodini. Vuole, fortissimamente vuole essere della partita e per questo mette a disposizione la sua (cospicua) cantina. Stringe da subito un improbabile ma duraturo matrimonio d’amore con il Peroni, facendoci coppia fissa. Dichiarandosi fin da principio champagne-dipendente, si dimostra di parola e grazie a un sistema di staffette abilmente organizzate riesce a disseminare almeno un paio di preziose bottiglie ad ogni tappa dell’itinerario, garantendo a se e a tutti brindisi oltremodo goderecci. Anch’egli progressivamente vittima delle vesciche, tiene duro fino alla fine, curandosi i dolori con le fide bollicine (da accertare se per farvi pediluvi e o se bevendo per dimenticare: probabilmente tutte e due). Abbigliato, nonostante il clima primaverile, come Fogar durante la traversata dell’Artico, è orfano di Armaduk ma si fa accompagnare da un bastone che, misteriosamente, diventa ogni giorno più corto. Accanto al soprannome storico di califfo si guadagna sul campo anche quelli di “cubano” e di “cobra”. Per decenza di tacciono le voci raccolte sulla scaturigine del secondo nomignolo.
Rosanna Ferraro. Enigmatica e lussureggiante, è innanzitutto un mistero come sia riuscita far rientrare nello striminzito bagaglio un paio di misees da grand soiree e almeno tre paia di scarpe tacco 12, che ha sfoggiato con altera noncuranza tra gli abbrutiti compagni di viaggio. Sempre accompagnata, durante il cammino, da due racchette da nordic walking che dimenticava ovunque, è stata battezzata l’Arsenia Lupin del companatico per la sua diabolica abilità nell’estorcere agli amici sempre nuove razioni di salame e prosciutto mostrando ai compari le solite due fette di pane desolatamente vuote. Dopo inutili tentativi di convincere i coriacei toscani della superiorità di una non meglio identificata focaccia che lei chiama “pizza bianca” (absit iniuria verbis), è stata – va riconosciuto! – ammirevole per aver superato ogni procella pedestre senza emettere un solo gemito o geremiade. Indimenticabile la scena di lei e il Sodini che, seduti davanti al municipio di Rocca San Casciano, si spalmano i piedini di vasellina.
Serena Guidobaldi. Giornalista-fumettara dall’apparente indole acqua e sapone, rivela coi giorni una maliziosa civetteria, tutta giocata sui quasi impercettibili e sempre imprevedibili accostamenti cromatici: leggendario il doppio pendant a base di viola-fucsia tra cerata e inserti delle scarpe e tra maglietta e rinforzi delle suole, che ostenta guidando stabilmente il gruppo con passo da gazzella. Replica così, con sussiegoso understatement, alla sinuosa vanità della compagna di stanza, con la quale condivide pure l’insana nostalgia capitolina per la menzionata pizza bianca, di cui si fa inascoltata cantrice. Ottima mangiatrice e bevitrice, a dispetto del fisico filiforme, si fa benvolere fingendo di schermirsi davanti all’obbiettivo e regalando un accenno di lapdance sotto la cascata della piscina del Grand Hotel Terme a Castrocaro. A dispetto di ciò, l’ultimo giorno mostra un volto da vedova nera: cerca di sbarazzarsi del fidanzato mescendogli proditoriamente la terrificante pozione al peperoncino del Frassineti, che lo fa stramazzare. Si riscatta alla fine, versando calde lacrime di commiato sulla spalla dei compari.
Carlo Macchi. E’ indiscusso protagonista da subito, con le indimenticabili gag ferroviarie del picnic alla stazione di Faenza e della crocifissione notturna sotto la pensilina del malcapitato progettista del sottopassaggio di Poggibonsi. Dopodichè rivela un’insospettata, puntigliosa anima da contabile, facendosi censore inflessibile di ogni parvente ipotesi di allungamento del (chilo)metraggio. Perennemente armato di telecamera, a beneficio della quale spesso declama e gesticola perfino da solo, filma tutto e tutti e si guadagna sul campo il titolo di “superotto de’ noantri”. Divide la stanza, purtroppo non insonorizzata, con Kyle, con cui spartisce anche un singolare talento nell’imitazione notturna dei cingolati in movimento. In dottrina si discetta se pratichi l’autovideoscatto. Ma, a parte questo dettaglio, tra i compagni di viaggio l’attesa per la visione dei suoi filmini-reportage è spasmodica. Contende al Romanelli il ruolo di Pinotto nelle scenette che come orologi svizzeri i due puntualmente allestiscono davanti all’obbiettivo. Nell’ultima cena dal Frassineti riacquisisce comunque alcune migliaia di punti sfoggiando la maglietta del triplete nerazzurro.
Kyle Phillips. Kyle è l’unico chiantigiano purosangue ad essere nato in Usa. E’ in lizza col Frassineti per la palma di gigante buono della spedizione, ma durante il pellegrinaggio artusiano ha vestito più che altro i panni di Rodrigo Mendoza, il protagonista del film Mission interpretato da Robert De Niro. Solo che mentre il Rodrigo cinematografico, per espiare la pena dell’uccisione del fratello, per settimane si trascina sulle spalle il sacco delle sue armi da schiavista e poi si fa gesuita, il nostro non ha ucciso nessuno epperò schiavizza se stesso, portandosi dietro un mostruoso cannone da 88mm camuffato da macchina fotografica e uno zaino da esplorazione himalayana. Eletto ufficialmente il santo bevitore del gruppo, con falcata compassata riesce ad arrivare sempre vivo al traguardo e trova pure il tempo per fotografare ogni cosa durante il cammino. Rinuncia all’ultima tappa offrendosi di fare da pretoriano ai nostri bagagli, destinati altrimenti a rimanere incustoditi tra mani rapaci. E’ stato bello fingere di crederei che il motivo fosse proprio questo.
Roy Berardi. Il romagnolo della compagnia attacca in modo frizzante l’impresa e sfodera un’energia, un entusiasmo e una verve organizzativa insospettabili, grazie anche alle due angele custodi che lo affiancano nel lavoro, rifocillandoci e assistendoci sul versante orientale della spedizione. Affronta con coraggio leonino, forse sottovalutandola, pure l’ascesa al Muraglione, dove ingaggia, perdendola, una lotta all’ultimo passo (e all’ultimo panino) con Kyle Phillips. Dato per disperso sotto la pioggia nelle impegnative rampe finali, quando ormai il gruppo è già sulla via di San Godenzo, viene atteso dalla moglie e si rimaterializza all’improvviso a valle, concludendo onorevolmente con tutti noi la prova finale, circondato dai corregionali. Tanto per non sprecare tempo, nelle more della passeggiata trova il modo di organizzare una sfida pedatoria tra giornalisti forlimpopolesi e senesi. Argento vivo.
Me, myself, I. Di me sapete tutto. O quasi. E comunque non mi spetta raccontarmi. Lascio volentieri l’incombenza ai compagni di avventura. Augurandomi che siano clementi…