I negozi di dischi e le riviste specializzate traboccano di vecchie glorie, alcune in forma (artistica) e altre meno. Ma traboccano soprattutto di fan e lettori attempati rimasti musicalmente fermi a quelle vecchie glorie. Così a volte sembra che il rock sia rimasto lo stesso di trenta o quarant’anni va, in un mix di artisti capaci di evolversi e veri e propri fossili. Peccato che nel frattempo sia cambiato tutto. E che per chi è di antico pelo il rischio sia di scoprirsi improvvisamente fuori dal tempo. E un po’ ridicolo.
Mentre nella foto di copertina mio nonno mi osserva camuffato da Tom Waits, le pagine scorrono frusciando tra le dita e mostrano un Ringo Starr anni ’50 in versione teddy boy, il torso nudo e mummificato – ma mobile, in ogni senso – di Iggy Pop che si esibisce il mese scorso con ciò che resta degli Stooges, un albocrinito Robert Plant in versione Maga Magò, ma con un microfono in mano e la strega Bacheca, alias Jimmy Page, accanto. Il tutto condito di pubblicità, interviste, curiosità, articoli, note critiche, discografie.
Bella cosa essere fan e farsi condurre dall’amore incondizionato, ovvero da quella certa cecità e sordità che ti impediscono di percepire in tutta la sua evidenza l’ineluttabile trasformazione di antichi leoni ruggenti in gatti spelacchiati miagolanti, spesso routinariamente impegnati ad imitare se stessi e a perpetuare il proprio simulacro. Spopolano in edicola, come una loro maliziosa appendice, giornali musicali di taglio e grafica giovanile ma concepiti, scritti, realizzati e letti da ultrasessantenni e dintorni, avidi di conoscere le ultime gesta di chitarristi quasi ottuagenari e di leggere recensioni sull’ennesima riedizione, con immancabile libretto e bonus tracks, di “Volunteers” o di “In rock”. Riviste dove la rubrica degli obituaries è ogni mese più ampia, al pari di quella dedicata alle ristampe di lp del tempo che fu. Riviste, infine, il cui target non è esplicitamente il reparto geriatria, ma una forcella di lettori che oscilla con disinvoltura dai quattordici ai settan’anni.
Certi eroi da copertina saranno anche gatti spelacchiati, dirà qualcuno, ma sempre grandi artisti. O grandi pedine dello show business, direi meglio. Oppure tutte e due le cose. Resta il fatto che, se ci si ferma un attimo a riflettere, quando si leggono certi giornali non è bello ritrovarsi di colpo, o anche solo sospettare di appartenere, alla sezione nostalgia dei viventi che comprano dischi.
Sia chiaro, non c’è nulla di male nel tempo che passa. Anzi. Ma proprio perché il calendario non si può fermare, è bello apprezzare chi fu grande nel momento in cui lo fu, senza la pretesa di cristallizzare niente e nessuno in eterno. E’ assai normale che le parabole terminino. Che terminino i cicli, i contesti, i periodi. Il r’n’r – e tutto ciò che, in un’infinita diramazione di categorie e sottogeneri, gli ruota attorno – è roba che corre veloce, si consuma presto. Lasciandosi alle spalle, è vero, una lunga e luminosa scia di gemme. Che però restano appunto gemme, opere-simbolo, capisaldi, il cui splendore oscura e fa tramontare tutto il resto, in un pulviscolo che piano piano cessa di appartenere all’arte corrente e scivola progressivamente prima nel costume, poi nella cronaca e solo talvolta nella storia.
Conta assai poco dunque che lo “spirito” di Iggy Pop sia oggi lo stesso (ma sarà vero, poi? E chi di noi non affermerebbe volentieri di essere il medesimo) di quarant’anni fa: nel frattempo ci sono stati appunto quarant’anni di musica (altrui), durante i quali tutto si è evoluto, arricchito, modificato. Sono cambiate le prospettive, le logiche, si sono ampliati gli orizzonti e i piani di lettura. Qualcosa si sarà anche involuto o guastato, può darsi. Ma, insomma, il quadro non è più lo stesso. Sono trascorsi anni luce, ere geologiche. Sei ne passarono tra lo scioglimento dei Beatles e i primi vagiti del punk, eppure sembrarono (e sembrano) una vita. Dalla nascita dei Sex Pistols ne sono passati trentaquattro e ancora, sulla stampa specializzata, si sta a studiare l’attività odierna e a rievocare la carriera di Johnny Rotten, uno che dal punto di vista musicale ha cessato di esprimere qualcosa di apprezzabile più o meno nel 1985.
Non è dunque la stessa cosa essere Iggy Pop oggi o esserlo nel 1970. Non ricordo quale rockstar ha affermato (mi pare Grace Slick) che dopo i 50 anni è meglio abbandonare i panni della trasgressione e vestire quelli della mezza età, per non rischiare di apparire patetici. Ha indubbiamente ragione. Anche se, è ovvio, in teoria si può restare artisticamente vivi fino a cento anni. E’ una questione di longevità spirituale e creativa. Un privilegio non di tutti né per tutti. Né il fatto che la vena, la verve, l’anima si essicchino significa che ciò che si è fatto prima perda valore. Al contrario. Non mi sognerei mai di dire che Atom Earth Mother, o Aftermath, o Night Moves non siano tuttora dei capolavori, pietre miliari del r’n’r. Ciò non toglie che da almeno trent’anni Pink Floyd, Rolling Stones e Bob Seger siano, artisticamente parlando, dei fossili. E così fa un certo effetto vederli celebrati come eroi d’attualità, con Keith Richards (un involontario richiamo alla pelle rugosa che contrassegna tanto il corpo del musicista che le borse dello stilista?) che fa la pubblicità della Louis Vuitton e Alice Cooper che consuma gli ultimi chili di fondo tinta per sembrare di essere ancora all’altezza di School is out. Pitone e pannolone per incontinenti compresi.
