VIAGGI & PERSONAGGI, di Federico Formignani
John Clement Ryan (Irish Distillers Limited): si beve dicendo “che tu possa stare un po’ in paradiso, prima che il diavolo sappia che sei morto!“. Viaggio tra gli usi del distillato creato dai monaci del VI secolo con gli alambicchi mediorientali.

 

Esistono sostanziali differenze tra whisky e “whiskey” (rigorosamente con una “e” in più, quello made in Ireland).

In America c’è meno classe, ma più sostanza. Già là il whisky lo chiamano “torcibudella” e proviene in gran parte dal rude Kentucky; ovvio che chi beve bourbon lo faccia conscio della possibilità di bruciarsi lo stomaco.

In Inghilterra gli avventori dei numerosissimi pub bevono whisky a piccoli sorsi, a labbra serrate, come si addice a chi impiega una lingua in gran parte sussurrata, insinuante; lo bevono puro, di solito; l’americanismo dilagante, tuttavia, ha fatto sì che molti sudditi di Sua Maestà abbiano preso la riprovevole abitudine di annegare la sacra bevanda con quantità industriali di cubetti di ghiaccio; è la collaudata ricetta on-the-rocks, di universale successo.

Se si sale ancora un po’, in Scozia, cominciamo a incontrare persone (sanguigne, moderatamente chiassose) che “sanno” bere meglio degli altri, per innata tradizione.

Ma è oltre un breve tratto di mare, in un’altra delle grandi isole britanniche, che il “whiskey” con la “e” viene vissuto più che bevuto, come in nessun altro luogo della terra. Questo posto è l’Irlanda, assicura orgogliosamente John Clement Ryan, public relations manager della Irish Distillers Limited di Dublino.

Qui, continua John, si beve come va bevuto: discutendo, assaporando, filosofando quasi. A Dublino come a Belfast, a Cork come a Galway o nel più sperduto dei villaggi dell’interno, il whiskey è una vera e propria religione.

Va da sé che l’arte della distillazione è alla base della preparazione di un buon whiskey. Nel caso del whiskey irlandese quest’arte, importata nell’isola verso il sesto secolo dopo Cristo, la si deve ai monaci che dal Medio Oriente avevano scoperto gli alambicchi usati per distillare profumi; forse pensavano inizialmente di usarli per lo stesso scopo; finirono invece per produrre una specie di bevanda che chiamarono Uisce Beatha (si pronuncia: isk’ke-ba’ha) parole gaeliche o irish che stanno per acqua-di-vita. Si deve poi alla lingua inglese se i due vocaboli originali, aspri nella grafia ma docili all’orecchio, hanno dato vita al termine whisky, una delle poche parole presenti in quasi tutti i dizionari del mondo.

Gli irlandesi amano parlare; amano anche ascoltare, però. Per questo preciso motivo i colloqui sono sempre una fitta ragnatela di messaggi – i più diversi e magari slegati per tema – che si intrecciano attraverso i tavolini del pub o sul filo di lucenti banconi. Bevendo whiskey, in Irlanda, è indispensabile rendersi conto di cosa si beve; si beve una vera e propria leggenda ed esistono regole che vanno rispettate.

La prima è quella di non ficcare il naso nel whiskey dell’amico che beve con voi. Un vecchio proverbio irlandese esorta a “non portar mai via la moglie a un altro uomo e a non versare mai dell’acqua nell’altrui whiskey”; qui ciascuno si manipola la bevanda come meglio gli aggrada. Ovvio che la si può bere pura; ma se deve essere allungata con acqua, questa è operazione riservata al proprietario del bicchiere. Così dicono i veri intenditori e a loro è indispensabile credere. Esistono già sufficienti motivi per arricciare il naso, sostengono, se si pensa al tanto buon whiskey sciupato col ghiaccio o per preparare l’lrish Coffee (che pure è bevanda deliziosa!) oppure ancora, “allungato” con altri ingredienti estranei, per confezionare cocktail. È il whiskey puro, così come arriva in bottiglia dalle distillerie dell’isola, quello che va bevuto; solo in questo modo è possibile avvertire il fuoco della bevanda che entra nelle vene e si amalgama alla perfezione con il carattere esuberante degli irlandesi.

La conferma ufficiale di questa “partecipazione” globale alle fortune del whiskey mi viene offerta proprio dall’amico John. Il pub prescelto è il Dingle Whiskey Bar, in Nassau Street, a due passi dal Trinity College e – guarda caso – dall’Irish Whiskey Museum! Dingle, dice John, è forse il più rinomato distillato d’Irlanda e arriva dal paesino omonimo, situato nella lontana Contea di Kerry, in faccia all’Atlantico. Qui al Dingle, col sottofondo di musiche e cori, i toasts si intrecciano. Non sono quelli lisci o farciti che conosciamo noi, i toasts irlandesi. Sono i brindisi, gli indirizzi di saluto e d’augurio che ci si scambia prima di bere. John alza il bicchiere e prorompe in un gioioso: “Slante, agus saol agat!” (salute e lunga vita a te!), che contraccambio con pari entusiasmo. Fra i tanti auguri che si possono ascoltare – nei frequenti scambi vocali dei molti avventori – uno è particolarmente curioso e felice: “Che tu possa trascorrere una mezz’ora in paradiso, prima che il diavolo sappia della tua morte!”. Ma anche quando il diavolo arriverà, immersi come saremo nell’altrove irripetibile atmosfera di un pub irlandese, finiremo per alzare il bicchiere persino nella sua direzione, augurandogli: Slante (salute).

 

PS: questa parola, a mio modesto parere, rappresenta un buon finale ad effetto, parlando di whiskey (sempre con la “e”). Siccome c’è il rischio che qualcuno in Irlanda la pronunci come la vede scritta, preciserò che va gorgogliata così: Slànn-ce.