VIAGGI&PERSONAGGI, di Federico Formignani
Diomede vi fuggì dalla moglie fedifraga. I Cistercensi ne scapparono e vennero i Lateranensi. I Borboni ne fecero una colonia penale. Ecco perchè l’affascinante isola pugliese echeggia di dialetti campani.
Nel corso degli anni sono approdato su un gran numero di terre emerse definite isole, ricavandone differenti sensazioni: quando vaste, di normale continuità rispetto al luogo e alla città in cui vivo; quando piccole: di istantanea traslazione fisica e spirituale nel nuovo ambiente del quale percepisco a pelle i confini ridotti, l’unicità delle condizioni di vita diverse da tutte le altre, l’afflato della storia e (perché no) della leggenda che su alcune aleggiano fantastiche sino a sembrare granitica realtà. Infine, l’impressione di potermene appropriare mentalmente man mano che le percorro e ne scopro i segreti.
È quello che ho provato visitando San Nicola, l’isola che in un lontano e luminoso mese di ottobre mi ha (dovrei dire, ci ha) letteralmente affascinato. Non è la più grande delle Tremiti (lo è San Domino) ed è uguale per estensione a Caprara o Capraia, l’isola deserta che deve il proprio nome al proliferare delle piante di capperi e non alle capre. Il Cretaccio e La Vecchia, scogli sbocconcellati un po’ alla volta dal mare, dai profili taglienti e irregolari, completano la geografia delle Tremiti. Sole e lontane nell’Adriatico sono poi Pianosa e Pelagrosa che, divenendo croata, ha persino cambiato nome.
L’eroe omerico Diomede deve aver trovata fantastica e accogliente l’isola di San Nicola, alla quale era approdato dopo esser fuggito da Argo, tradito dalla moglie Egialea. In viaggio attraverso lo Ionio e l’Adriatico, avrà pensato alla fortuna di Ulisse che – forse immeritatamente – aveva potuto contare sulla fedeltà di Penelope. Ma l’isola di San Nicola, ubicata da Plinio “contra Apulum litus”, era nei suoi destini; qui, con i suoi fedeli compagni d’arme era vissuto in simbiosi con la natura, dimentico delle sue sfortune e qui è morto, seppellito e pianto dai suoi amici, a loro volta mutati in uccelli (le Diomedee) perché destinati a perpetuare nel tempo il ricordo del loro eroe con i lamentosi garriti notturni.
Per apprezzare San Nicola occorre faticare un po’.
Dalla Marina si sale lungo le rampe pavimentate con pietre disposte a spina di pesce, sino all’antica porta d’ingresso; le fortificazioni di questo lato dell’isola sono state volute dai Canonici Regolari Lateranensi nel XV secolo e l’abitato che si raggiunge – case basse allineate e allungate in direzione del castello – è stato edificato dai Borboni. Case di pescatori e di artigiani; case abitate dai discendenti dei guappi e vagabondi napoletani, qui inviati al confino nel 1792 da Ferdinando I re di Napoli e Sicilia, perché San Nicola era una colonia penale, così come lo era stata prima con i Romani e poi con Carlo Magno. Traccia oggi permanente degli antichi arrivi, il dialetto in varie forme campane, malgrado l’arcipelago sia amministrato dalla provincia di Foggia.
Percorro la via Diomedea attraverso il piccolo borgo, così come l’hanno percorsa i Benedettini guidati da Cassino, inviati dal Papa nell’anno 1016, portatori della beneaugurante statuetta lignea di Santa Maria a Mare, dal viso e dalle mani color bruno, per via della provenienza orientale. Profondamente religiosi, i Benedettini, raccontano le cronache. Ma combattivi e determinati nel proteggere la loro isola e i tesori che conteneva dall’assalto dei pirati dalmati. Assaporo la via Diomedea pensando anche ai monaci Cistercensi, qui approdati nel 1237, intenti a ristabilire atmosfere di pacata spiritualità, dopo le turbolenze di chi li aveva preceduti.
I pericoli costanti degli assalti da parte di pirati e avventurieri purtroppo persistono, sino al punto di suggerire ai monaci Cistercensi di abbandonare San Nicola; è l’anno 1343. Ma l’isola non può rimanere senza guida spirituale e (più concretamente!) materiale: ecco che nell’anno 1412 Fra Leone Cherardini, rettore dei Canonici Lateranensi, accetta l’invito a recarsi nelle Tremiti.
Si deve infatti a loro, ai Cistercensi, se la Chiesa di Santa Maria a Mare, costruita dai Benedettini nel 1045, viene parzialmente rielaborata, più che rifatta, nell’anno 1473. L’intera facciata e il portale, abbellito da motivi decorativi rinascimentali, tornano a nuova vita con la pietra bianca di Bisceglie.
Entro (entriamo…) nella bella chiesa a tre navate e subito risalta quella centrale, quadrilatera, che forse un tempo ospitava l’altare, a somiglianza delle chiese bizantine. Ma l’impatto emotivo violento e insieme dolcissimo è dato dal corpo denudato del Cristo crocifisso, opera singolare di tradizione bizantino-siriana, di inestimabile valore. Si cammina sospesi e rapiti, nella bella chiesa della bellissima San Nicola, poggiando il solo sguardo sul prezioso pavimento che conserva avanzi di mosaico greco-bizantino, nato all’epoca dei Benedettini, stupendo nei colori e nel disegno geometrico-figurativo. Il raccoglimento dell’interno chiesa sfocia poi nella luminosa libertà costruttiva dei chiostri, posti a lato della chiesa e comunicanti tra loro. Su una colonna del secondo chiostro è visibile la scritta “1546 AVE REGINA CELORUM”, data di edificazione del colonnato per mano dei Canonici.
Proseguo (proseguiamo…) verso la punta di San Nicola. La via ha ora un altro nome: non più Diomedea bensì via del Cimitero; in pratica, un camminamento che si snoda lungo la dorsale dell’isola – dividendosi per poi ricongiungersi – attraverso affioramenti rocciosi digradanti verso il mare e bassi arbusti modellati a cuscinetto dai venti marini. Nel punto più stretto dell’isola si ha quasi l’impressione di percorrere un semplice ponte di terra; il mare, sui due lati, assottiglia lo spazio praticabile; poi, superato l’eliporto, l’isola si allarga e il terreno è in leggera salita. Scenderà appena un po’ dove il piccolo cimitero a rettangolo accoglie le ossa delle passate generazioni. Il cammino ora è lento e il capo gira lentamente per abbracciare più spazio possibile. Mi muovo (ci muoviamo…) sulla terra profumata di San Nicola, aspirando con voluttà le folate di salsedine che salgono dalla riserva marina sottostante. A questo punto mi è del tutto chiaro come Diomede, qui, abbia potuto dimenticare Troia, la moglie adultera, il regno di Argo.