Un’arme misteriosa, una dama bella e sfortunata, storie oscure che affiorano dal passato, simboli, eterocromie, una giornalista enogastronomica che diventa un detective maschio, beve Grignolino e sta nascosta nel marsupio di un petauro dello zucchero. “Nec ferro nec igne” di Cinzia Montagna è uno strano e bel romanzo.
Il nome Camilla non mi è mai particolarmente piaciuto.
Forse perché, da bambino, devo aver conosciuto una Camilla che era antipatica. Chissà. D’istinto poi (non chiedetemene le ragioni) mi veniva da associare il nome all’ortica, anziché alla camomilla, come foneticamente sarebbe parso più giusto. Al maschile il nome mi ricordava invece un lontano parente, che ho visto la prima e credo l’ultima volta nel 1964. Se la memoria non m’inganna era magrissimo, scuro e coi capelli riccioli. Oppure mi rammentava un cameriere che, sempre negli anni ’60, ci serviva al ristorante sul mare. Non so se perché si chiamava Camillo, o se Camillo era il nome del locale, o semplicemente perché la parola comincia per “cam”. Ma si diceva che piluccasse le ciliegie dal cestino della frutta.
Tornando a Camilla, è un nome che fino ad oggi fisiognomicamente mi ha sempre richiamato, per motivi oscuri, il viso di Mariolina Cannuli, la presentatrice tv. Più che inutile, qui cercarne la causa mi pare impossibile. E così via.
Fino ad ora, appunto.
Da quando però ho finito di leggere, con progressivo coinvolgimento lo ammetto, il libro di Cinzia Montagna “Nec ferro nec igne” (Circolo Culturale I Machesi del Monferrato, 208 pagine, 15 euro), il nome Camilla non potrà che avere il viso della protagonista: la marchesa Camilla Faà di Bruno. E soprattutto il suo sguardo enigmatico. Anzi, eterocromatico: cioè con le pupille di un colore diverso l’una dall’altra.
Devo dire che le mie strane associazioni di idee e di fisionomie con il nome della protagonista mi hanno aiutato parecchio nell’affrontare la lettura del romanzo.
Mi ha aiutato perché la proteiforme facies che l’altera fanciulla poteva assumere nei miei pensieri, con l’aggravio di suggestione indotto dai veri ritratti della nobildonna, via via riportati tra le pagine, non ha mai assunto una forma definitiva. Almeno fino al momento clou della vicenda: coll’avanzare del racconto, nella mia fantasia quel viso mutava così di volta in volta, secondo i casi, tra la bambina antipatica, la donna del dipinto e perfino il cameriere o il cugino (a tratti addirittura la signorina buonasera). Grazie a questo ho potuto concentrarmi meglio sulla scrittura e sull’intreccio. Intrigante, devo ammetterlo. E sulla storia parallela dell’indagine che pian piano riconduce alla luce quell’oscuro personaggio rimasto schiacciato e dissoltosi, ai primi del ‘600, tra i poteri forti della corte mantovana dei Gonzaga.
Metto subito le mani avanti: misurarsi con la critica di qualcosa di scritto da chi conosci non è mai facile.
Il timore di essere troppo buoni si divide tra il rischio di apparire accondiscendenti e quello di diventare esageratamente severi. Un effetto che si moltiplica se, a sorpresa, ti ritrovi poi indirettamente, ma chiaramente, citato, anche se non proprio per nome, bensì per mestiere e circostanze, tra le pieghe della narrazione. Un vero colpo basso!
Nè saprei del resto come definire in fin dei conti quest’opera, che sotto le mentite spoglie del romanzo storico-avventuroso mi pare nascondere una natura da un lato autobiografica e da un altro quasi erudita. Mentre sotto differenti profili si dipanano egregiamente, tra le righe, anche una vena autoironica e una trasversale, inquieta riflessione generale sulla professione.
Quale professione? Quella del giornalista naturalmente. Che unisce, guarda caso, l’autrice e il sottoscritto.
Eppure, al termine della lettura, questo “Nec ferro, nec igne” risulta pure ai miei occhi non terzissimi soprattuto un romanzo vero, con un capo e una coda, dotato di un intreccio originale e di quella capacità di avvincere determinata dal saper arrestare e riprendere la narrazione al momento giusto, dribblando i cul de sac della noia e certe derive didascaliche, assai rischiose quando si affrontano le dimensioni di una parentesi temporale che non è solo aneddoto, ma ancora non è divenuta Storia.
Il tutto in un incrociarsi di tempi e di personaggi dai quali traluce un birichino gioco di identità, un giocare a nascondino con se stessi, un confessarsi burlando per smascherare forse, dichiarandole, certe crepe esistenziali, certi dubbi fondamentali, certi relativismi di un’età a cavalcioni tra la controllata potenza dei quaranta e la maestria nel dosare le residue energie dei sessanta.
Senza che però, in questo, si perda di vista mai il vettore del romanzo, cioè l’intrico tra le avventure personali e la ragion di stato che determinano la non del tutto rassegnata esistenza della duchessa. O della contessa e poi marchesa, visto che Camilla duchessa non lo diventò mai, se non in pectore.
Resta il fatto che Camilla Faà di Bruno, nata nel 1599, trascorse in convento due terzi della sua sfortunata esistenza e morì nel 1662. Ma tutto quello che conta avvenne tra il Monferrato, Mantova e Ferrara, prima che compisse i venticinque anni. Eppure, nessuno dei personaggi del romanzo di cui è motrice ne ha meno di cinquanta.
Chissà, forse anche questo vuol dire qualcosa. Come la presenza del petauro, il petauro dello zucchero, che incombe e sfarfalla, allusivo, a volte molesto, su tutta la storia. Magari è la reincarnazione di Camilla. O l’alter ego dell’autrice, che nel romanzo parla in prima persona ma preferisce, chissà come mai, farlo al maschile. O l’ambigua fata seminuda, con le ali di pipistrello e la coda di serpente, che troneggia nell’arme dei Faà. Potrei provare a chiedere lumi su tutto questo alla stessa Montagna. Ma so già che, nonostante le insistenze, non me lo direbbe.
Nec ferro, nec igne.