Sulla pratica siamo (quasi) tutti d’accordo. Sulla teoria, idem. Eppure, parlando di biologico, allineare grandi istanze e buone pratiche in un ragionamento unico è sempre molto complesso. Quelli della Vernaccia di San Gimignano, comunque, ci hanno provato.
Il “bio”, in tutte le sue diverse declinazioni, è un tema senza dubbio affascinante e che si presta a molteplici letture.
Non sfuggono la materia agricola e quella sua particolare specificazione che è il vino.
Detto questo – e fatta piazza pulita delle interpretazioni da bar che spesso se ne danno, nel tentativo di rendere popolare un argomento di per sè ostico – bisogna però anche riconoscere che sviluppare un dibattito serio e articolato sull’argomento, cercando di tenere insieme le istanze della vita quotidiana di chi opera sul terreno con i grandi temi dell’umanità e i ragionamenti sui massimi sistemi dell’ecologia, è impresa oltremodo ardua.
Resa ancora più impegnativa dalla necessità di stare alla larga, per evitare strumentalizzazioni, dalle mode e dalle sirene di un marketing sempre in agguato quando si parla di vino “naturale” in tutte le sue possibili accezioni.
Ci ha provato giorni fa, con ottimo successo di pubblico (il che non è affatto scontato), un convegno organizzato dal Consorzio della Vernaccia di San Gimignano.
Il quale si è posto una domanda papale papale (“ma il ‘bio’ è logico?“) e ha chiamato a cercare la risposta il facondo collega-filosofo Carlo Macchi, direttore di winesurf.it.
Che a sua volta ha girato l’interrogativo a un ricco parterre di relatori: la ricercatrice dell’Università di Siena Rita Vignani, specializzata in tracciabilità molecolare del vino, Ezio Pelissetti di Valoritalia, società leader nelle attività di controllo sui vini svolte per conto del Mipaaf, Matilde Poggi, presidente della Federazione italiana vignaioli indipendenti, il presidente di Slow Food Roberto Burdese, il regista-guru del bio Jonathan Nossiter e il prof. Lucio Brancadoro, docente di viticoltura alle Università di Milano e di Asti. Nella non sempre comoda poltrona di ospite e di tiratore delle conclusioni, la presidente del consorzio sangimignanese Letizia Cesani.
Come previsto, gli spunti di interesse non sono mancati. A cominciare dall’ipotesi, per ora in verità ferma al livello della pura congettura, che condurrebbe il sodalizio dei produttori della Vernaccia ad essere il primo in Italia ad annoverare solo vignaioli “bio” (attualmente rappresentano comunque già il 25% degli associati). Gli ostacoli culturali, burocratici ed economici a un simile disegno non mancano, sia chiaro, ma la prospettiva ha un suo indubbio potenziale, anche sotto il profilo del puro marketing (tema che, come si vede, in materia di bio rientra ogni volta dalla finestra anche se lo fai uscire dalla porta).
Sullo sfondo e nell’aria, anche tra le torri della Manhattan del medioevo, è però sempre rimasto un non so che.
Un muro trasparente ma invalicabile, una terra di nessuno inesplorabile, un’area impaludata che alla fine risulta essere il campo di latente scontro, tipico di queste occasioni e indefinitamente ideologico, tra scienza ufficiale e movimenti trasversali, tra istanze materiali e questioni universali, tra quotidiano e globale. Uno scontro che in ogni occasione lascia aperto nel dibattito, e anche stavolta non ha fatto eccezione, un solco dialettico profondissimo: quello che rende difficili da conciliare, in concreto, il perseguimento di un obbiettivo di altissimo profilo (il cosiddetto “salvataggio del pianeta“) con i bisogni, le esigenze, l’agire di tutti i giorni di chi gestisce un’attività e su di essa basa la propria sopravvivenza. Inclusa la produzione di vino, bio o meno che sia.
Ecco perchè a San Gimignano gli argomenti sono stati davvero numerosi, inclusi quelli venuti da un pubblico insolitamente ciarliero, e le relazioni parimenti coinvolgenti. Ma nessuna realmente capace di legarsi con le altre e di creare un filo coerente che indicasse al popolo e ai singoli che lo compongono una via unitaria da seguire.
Si è parlato così, con brillantezza, di tracciabilità delle produzioni, di sostenibilità dell’economia, di certificazione della qualità, di identità molecolare, di antropologia enoica, di presente e futuro del vino e del nostro pianeta.
Ma al termine non è rimasto altro che concludere che moltissimo è ancora da fare in termini di buone pratiche ampiamente condivise. Condivise al punto da costituire una reale tendenza.
Insomma: il bio è logico, l’uomo un po’ meno.