A vedere dritto in faccia il Mangia, leggendario campanaro della Torre. O a osservare scorci inediti e prospettive altrimenti invisibili. Come? Salendo sui solai del Duomo, aperti fino al 27 ottobre. E cedendo magari anche alla tentazione di guardare in basso.
Sarò eufemistico e dirò che per la mia città, Siena, il periodo è difficile.
Domani e dopodomani si vota per il rinnovo del consiglio comunale, dopo l’umiliazione del commissariamento e il terremoto politico da cui esso è derivato. Al quale si è poi sovrapposto quello ancora più fragoroso, ambiguo e dagli esiti incerti del caso Mps, con la sua scia di lutti, veleni, polemiche, arresti, indagini e strumentalizzazioni varie. Si è prodotto così un sisma ulteriore, che ancora scuote le fondamenta, sociali prima che economiche, di una città intimamente fragile nella sua natura, sebbene resa coesa dal mastice secolare di un’identità – vera e immaginaria – difesa con le unghie e con i denti e divenuta col tempo, contemporaneamente, alibi culturale e baluardo etnico.
Ma non è di nessuna di queste cose che voglio parlare.
Voglio invece – letteralmente – lanciare uno sguardo al di sopra del livello terreno e provare a osservare il cielo che aleggia sulla città, i suoi tetti, la sua globalità, in una sinossi che congiunge (davvero, si può fare) l’aere celeste con le radici della Civitas Virginis, della sanguigna, quasi terragna patria del Palio, passionale e faziosa, provinciale ed unica.
Non è difficile.
Basta salire, ora che sono stati resi agibili e aperti al pubblico, sui tetti del Duomo cittadino.
Un’idea che hanno chiamato “La porta del cielo” (info e tutto il resto qui), ma che forse andava battezzata “La porta dell’orizzonte”, visto che calpestando i pianciti e le volte della fabbrica, affacciandosi alle finestre, occhieggiando dai camminamenti, è dritto che prima di tutto viene da guardare. Perchè fa un certo effetto trovarsi alla stessa altezza del Sunto, il campanone della Torre del Mangia, o appena sopra la fortezza medicea e la basilica di San Domenico. Le grandi vetrate policrome, i graffiti sul marmo di antichi operai, le canalizzazioni (tutte interne) per l’acqua piovana, gli schizzi che Antonio Partini e altri architetti tracciarono a carboncino sulle pareti imbiancate di quei labirinti sopraelevati, durante i rifacimenti ottocenteschi. E poi sotto: le navate, le colonne balzane, i volti dei papi scolpiti sul cornicione, gli altari, la gente. Dall’alto, a volte a picco.
Al di sopra dei 79 scalini della scala a chiocciola che separa il famosissimo pavimento intarsiato del Duomo senese dai solai c’è un viaggio intero, carsico, stretto tra feritoie, affacci improvvisi, spifferi gelidi, corridoi e ballatoi.
E’ un gioco di piani che può confondere. Stai sotto le grandi travi del tetto, ma appoggi i piedi sulla volta stellata della navata destra. Guardi giù e pensi che il pianterreno fa da solaio a una cripta che in realtà è quasi un duomo intero, quello romanico, scoperto per caso qualche anno fa con i suoi affreschi rimasti per otto secoli perfettamente integri sotto la coltre di terra e calcinacci.
Ed è qui che fino al 18 agosto si potrà ammirare, in una sorta di “one shot exhibition“, cioè una mostra fatta da un solo quadro, il San Giovanni Battista di Michelangelo Merisi da Caravaggio, proveniente dalla Pinacoteca Capitolina di Roma.
Piace immaginare che stia, ed anzi si sublimi, anche in questa sua incrollabile, stratificata, intrecciata concrezione di bellezza l’immortalità di una città che viene sventolata negli adagi ma poi, spesso, tradita nei palazzi della politica, nelle stanze degli affari e nelle vetrine di negozi in effimeri franchising.
C’è chi dice che la vitalità senese risieda nella sua immobiltà. Forse ha ragione. Ma è un’immobilità bellissima.