La casistica della comicità involontaria generata dall’uso dell’ormai dilagante strumento della videoconferenza è già monumentale e sta facendo da mesi il giro del web: dal tizio che si mostra sul wc a quello che gira nudo per casa, dal politico interrotto dal figlio piangente alla coppia che fa sesso a dibattito in corso, pensando di non essere vista.
C’è poi l’ampio ventaglio audio, che spazia dai rumori corporali diffusi in diretta ai più riservati colloqui domestici e perfino alle liti coniugali.
Esiste però anche un altro aspetto, certo meno eclatante ma non meno, anzi più sottilmente, comico: quello dei sottopancia prescelti dai partecipanti.
Ora, che durante i meeting tra vecchi compagni del liceo o del calcetto ci si chiami per nome o anche per soprannome, è normale: Gigi, Susy, La Bestia, eccetera.
Il bello, si fa per dire, è che sovente questo metodo è adottato anche per riunioni tra colleghi o, peggio, tra estranei o, peggio ancora, tra cittadini e istituzioni, quando un minimo di riconoscibilità, di forma e di presentazioni sarebbe indispensabile.
E invece, nisba: la gente si collega per default coi nomignoli più disparati. L’assessore mai visto in faccia compare col nome di battesimo (“Carlo”: cioè?), l’ingegnere con quello di battaglia (”Gogo”: come?), l’imprenditore di provincia con l’acronimo della ditta (“ARLM”: azienda romana laminati plastici, come se fosse “FIAT”).
Il risultato è surreale: tutti si guardano senza capire chi parla, a che titolo, perché. E naturalmente nessuno ha il coraggio di chiedere.
Con l’aggravante che, di solito, queste riunioni si appoggiano a un organizzatore che si presume navigato conoscitore del mezzo e spesso è, nei casi più istituzionali, un professionista del medesimo.
Eppure nemmeno a nessuno di costoro viene in mente di raccomandare prima, e neanche di consigliare in diretta, di indicare per esteso nome, cognome e possibilmente qualifica.
Da non credere.
Che sia un modo subdolo per mantenere l’anonimato in caso di misee o location imbarazzanti?