di URANO CUPISTI
Racconto di un viaggio fatto quando il turismo di massa dava solo i primi vagiti e si viaggiava su autosarade costruite per far atterrare i grandi cargo militari. Correva il 1988.
Galeotto fu quel libro preso in prestito alla Biblioteca Comunale (a quel tempo l’unica vera fonte di informazioni) e oggi introvabile, dal titolo “La Giordania di Re Hussein“.
Non dico di averlo trascritto tutto, ma quasi. Mi colpì la visione lungimirante, direi liberale di quel monarca, se confrontata con i regimi arabi del tempo. Non furono Petra o il Wadi Rum a invogliarmi a visitare la Giordania, ma piuttosto la curiosità per la vita araba di tutti i giorni e l’anima beduina, uscita dalle pagine del libro, che la caratterizzava.
L’identità dei beduini mi affascinava. Un popolo nomade, i signori del deserto, di lingua araba e di religione musulmana. Divisi in tribù, per lo più pastori, anticamente un po’ ribelli e predoni, una parte di loro avevano trovato un proprio modus vivendi quasi stanziale nella Giordania di Hussein. Sempre accampati nel vasto deserto, ma con tende ben piantate e meno amovibili. Già a quel tempo serpeggiava tra loro il facil denaro portato dal nascente turismo. E una cena in tenda beduina, nel deserto, era molto gettonata.
Cosa che ovviamente volli provare anch’io con tanto di danze dei sette veli e cibi a base di riso, hummus di ceci, formaggi di capra e qahwa, il caffè beduino preparato con cardamomo, dal gusto particolarmente rinfrescante.
Ovviamente non mi interessai solo di beduini.
Visitai la città romana di Jerash, uno dei siti archeologici meglio conservati al mondo, con il teatro Sud, il Cardo Massimo tutto colonnato, il Macellum (mercato cittadino), il Foro e il tempio di Artemide. Andai in Terra Santa, al Monte Nebo (il luogo dal quale Mosè avrebbe visto la Terra Promessa) e Madaba, la città dei mosaici citata anch’essa nella scrittura.
A darmi il benvenuto fu la chiassosa Amman.
Appena uscito dall’Aeroporto conobbi subito Karim, consigliatomi da un amico con quel passaparola in uso allora tra gli intrepidi viaggiatori. E lui fece fede al significato del suo nome: generoso d’animo. Girammo in lungo e largo tutto il paese senza alcun problema e riuscii a salvarmi dagli assalti al turista, sport già allora in gran voga.
Trovai la capitale multiculturale e vivace, con tanti quartieri diversi tra loro. Karim mi portò a casa sua a farmi conoscere l’intera famiglia. Padre, madre, i nonni paterni e sei tra fratelli e sorelle. Non dimenticherò quel pranzo preparato in mio onore.
Visitai la Cittadella araba e il Tempio di Ercole, il Palazzo degli Omayyadi, la chiesa Bizantina, l’Odeon, il Museo Archeologico e la Moschea del Re Abdullah I. Poi le passeggiate nelle stradine, a scoprire quel fascino unico dei mercatini multicolori, tutti paradossalmente ordinati. E il kebab di montone coi “litri” di caffè alla turca necessari per digerirlo.
Mi diceva Karim che il turismo, allora in crescita, si limitava al Wadi Rum (Lawrence d’Arabia docet), Petra e due giorni ad Aqaba, sul Mar Rosso, nei nuovi sesort appena costruiti. Pochissimi chiedevano di percorrere la via Regia, di provare l’emozione di un bagno nel Mar Morto o di stare ore sotto la cascata di acqua calda a Ma’in.
Naturalmente lo chiesi io.
La Via Regia è la strada, vecchia cinquemila anni, che collega Amman e Petra. Nel 1988 non c’era nessuno o quasi.
Nel percorrerla attraversammo paesaggi affascinanti, dai più piatti deserti ai canyon più profondi, fermandoci a visitare i castelli dei crociati di Al-Karak e Shobak e le rovine di Umm al-Rasas.
Anche la classica visita di Petra fu diversa, grazie a Karim. Ci alzammo la mattina prima dell’alba per evitare i “cammellieri e chi voleva noleggiarci un cavallo” e per attraversare la lunga gola prima di arrivare davanti alla città rosa scavata nella roccia dal popolo dei Nabatei. Potemmo così godere dei primi raggi del giorno che illuminarono El Khazneh, ovvero il Tesoro. Petra era solo per noi.
La Valle della Luna, ovvero il Wadi Rum, decidemmo di viverla come beduini, trascorrendo un giorno e una notte interi ospiti di una famiglia molto cara a Karim.
Le formazioni rocciose di granito e di arenaria che si elevavano nella distesa di sabbia creavano un paesaggio lunare. Ammirai il monte Jebel Rum e il Canyon Khazaly. Trovammo la tenda dei beduini vicino alla sorgente. Mi godetti fino all’ultimo i rumori del deserto di notte, i fuochi accesi per tenere lontani i predatori e gli sguardi dei ragazzi, sempre vigili sul gregge.
Aqaba la trovai diversa da come l’avevo vista in precedenza, durante un viaggio con mio padre. C’erano grandi alberghi, resort e villaggi turistici disseminati qua e là, come a far invidia a quelli ormai arcinoti della dirimpettaia israeliana, Eilat.
Il ritorno verso Nord lo facemmo su una specie di autostrada costruita in realtà come pista di atterraggio per gli gli aerei militari. Viaggiavamo e a un certo punto ci trovavamo immersi nel frastuono potente di un C-130 che toccava terra davanti a noi. Per loro era la quotidianità, per me un po’ meno.
Eravamo diretti verso un centro termale sulla riva giordana del Mar Morto quando Karim decise di deviare verso un’altra località, che risultò essere Ma’in, ricordata nella Bibbia come il luogo preferito dal Re Erode. Anche noi ci concedemmo attimi di relax sotto le cascate d’acqua calda tra i 45 e i 63 gradi, mitigate con miscelazioni di acque più fredde. Praticamente un centro benessere a cielo aperto.
L’ultima tappa del viaggio fu il Mar Morto.
Galleggiare nelle acque blu, farmi fare un massaggio e provare i famosi fanghi fu il traguardo finale di quanto mi ero prefissato: conoscere una Giordania dove re Hashemita riusciva a governare in un mix di modernità e tradizione.
Sono passati trentacinque anni e mi piacerebbe tornare per vedere cosa è cambiato.